“Goritiae protectores Sancti Hilari et Tatiane orate pro nobis”

Secondo la tradizione della Chiesa aquileiese i Santi Ilario e Taziano sarebbero stati i successori dei Santi Ermagora e Fortunato, il primo vescovo e il primo diacono aquileiese, ai quali sarebbero accomunati anche dalla prova del martirio.
Che il culto affondi le radici nell’età romana tardoantica è certo, visto che già alla fine del IV secolo è documentata ad Aquileia una chiesa intitolata a Sant’Ilario, esistita sino agli anni Settanta del Settecento.
La dedicazione della principale chiesa goriziana è invece ricordata per la prima volta in una fonte scritta del 1342, anche in questo caso con il solo riferimento al santo vescovo. Bisognerà così attendere un atto notarile del 1465, redatto sotto i tigli nella piazza antistante la parrocchiale, per trovare menzione anche di San Taziano.
Con la soppressione del Patriarcato di Aquileia nel 1751 e la creazione, nel 1752, dell’Arcidiocesi di Gorizia per i territori a parte Imperii, rinvigorì in città il culto dei santi patroni.
Lo attestano visivamente due dipinti e un’incisione esposti alla mostra “Pittori del Settecento tra Venezia e Impero”, allestita sino al 7 aprile nella sede di Palazzo Attems Petzenstein dei Musei Provinciali di Gorizia.
Da tempo è noto il dipinto di medio formato eseguito da Antonio Paroli (1688-1768), che ora sappiamo essere nato a Venezia, abbandonata a favore di Gorizia dove impiantò una fiorente bottega pittorica.
Sulla tela campeggiano, ritratti a figura intera, il vescovo Ilario e il diacono Taziano.
Il primo ha le sembianze di una persona anziana e canuta, indossa il camice e la stola sacerdotali e gli abiti e le insegne della dignità episcopale: piviale, mitria e pastorale; il secondo, all’evidenza più giovane e imberbe, veste un camice bianco e una sgargiate dalmatica rossa con ricami giallo dorati. Entrambi esibiscono la palma del martirio, richiamato anche dalle spade portate dai due angioletti raffigurati alle estremità.
Il centro focale della composizione pittorica è però riservato al modellino del Castello di Gorizia, sorretto da un’altra coppia di angioletti, mentre i due santi vi posano le mani in segno di benedizione e d’intercessione celeste. Pende sopra il maniero, legato alla cornice superiore da svolazzanti nastri rossi, lo stemma della Contea di Gorizia, a sua volta sormontato da una corona principesca.
Questo consente di datare l’opera al tempo della Contea principesca di Gorizia e Gradisca, istituita nel 1754. In quell’anno fu riannesso al territorio comitale il capitanato di Gradisca, assegnato nel 1647 ai principi Eggenberg, la cui discendenza maschile si era estinta già nel 1717. Il risalto conferito al Castello e alle insegne araldiche spinge ad individuare la committenza in un’istituzione laica, forse nel Magistrato cittadino.
Di diverso tenore e destinazione è il dipinto realizzato verosimilmente nel sesto decennio del Settecento da Johann Michael Lichtenreit (1705-1780), pittore nato a Passau in Baviera, ma residente a Gorizia almeno dal 1737, quando convolò a nozze con Dorotea Dragogna, figlia del notaio e cronista Matteo. Sulla tela, esposta per la prima volta in una mostra, i due santi occupano l’intero primo piano, laddove il Castello è relegato sullo sfondo, come un attributo secondario e in sottordine rispetto ai due cartigli, che identificano in maniera chiara i protagonisti della scena: “Goritiae protectores / Sancti Hilari et Tatiane orate pro nobis”.
Il dipinto, caratterizzato da tonalità abbassate e marcato chiaroscuro, si conserva nel convento francescano della Castagnevizza, completo della sua cornice tardobarocca nera con decori dorati.
Non era quindi destinato ad un altare, bensì andava a comporre la galleria dei santi venerati nel convento, retto sino al 1785 dai carmelitani.
L’opera di Lichtenreit riveste un ulteriore interesse poiché è fedelmente tratta da un’immaginetta sacra, destinata alla devozione personale, miracolosamente giunta sino ai giorni nostri, anche se all’epoca, di questi foglietti, ne dovettero circolare centinaia se non migliaia.
Il prezioso documento, oggi nelle collezioni dei Musei Provinciali, proviene dal soppresso monastero goriziano delle Madri Orsoline, dov’era stato per lunghi anni appeso a una parete della sacrestia.
Di autore ignoto, ma con tutta probabilità veneziano, la parte figurata incisa è stata semplicemente trasposta su una tela di maggiore formato e tradotta nei colori ad olio dal Lichtenreit. Questi, infatti, non si è minimamente preoccupato di apportare varianti alla composizione, fatta eccezione per la torre dell’orologio del Castello. Nell’incisione essa è rappresentata frontalmente, come la si poteva vedere dal Traunik, mentre sulla tela appare di profilo, lasciando intendere che l’artista abbia dipinto il Castello “dal vero”, dalla finestra della sua bottega in quel di San Rocco.

Alessandro Quinzi