Essere prete in un oggi difficile

Essere prete in un oggi difficile. Il percorso di don Matteo comincia con il cammino: da se stessi agli altri con l’Altissimo.
Dopo il percorso di studi, Matteo Marega diventerà sacerdote il giorno di Pentecoste nella millenaria basilica di Aquileia. Nei giorni precedenti si muoverà fino al Lussari, a piedi: una riscoperta di se stessi nell’ascesa.
«Ciò che hai tante volte provato oggi salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che vogliono accostarsi alla beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto tanto facilmente, ciò è dovuto al fatto che i moti del corpo sono visibili, mentre quelli dell’animo son invisibili e occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto e stretta, come dicono, è la strada che vi conduce. Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù dobbiamo procedere per nobili gradi; sulla cima è la fine di tutto, è quel termine verso il quale si dirige il nostro pellegrinaggio».
Ho appena terminato l’intervista con Matteo Marega che il 19 maggio sarà ordinato sacerdote nella Basilica Patriarcale di Aquileia a coronamento di un percorso di discernimento e di studio. La penultima settimana prima di diventare prete, Matteo la passerà – anche se è già avvenuto nel momento in cui scrivo – in cammino. Non un cammino metaforico o spirituale bensì un cammino fisico: da Grado raggiungerà il santuario del Monte Lussari.
Chi ha una minima formazione umanistica avrà capito certamente che la citazione iniziale è tratta dall’Ascesa al monte ventoso di Francesco Petrarca e sulla quale sicuramente non mi soffermerò più di tanto. Chiaro è il riferimento all’ascesa fisica che diventa ascesa spirituale per il poeta che si autodefiniva indegno nel suo percorso verso l’Altissimo. Un riferimento un po’ meno chiaro ma simile l’ho trovato nel discorso di Matteo mentre discutiamo sul percorso fatto, sul futuro della figura del sacerdote e su progetti e idee. Se Petrarca guardava al fratello che ascendeva con più facilità, Matteo cammina non solo ma senza la fretta di guardare costantemente un’altra figura d’esempio: in questo caso la guida, unica e schietta, è la Parola.
Per andare con ordine, è necessario partire dalla breve telefonata che intercorre qualche giorno prima il nostro incontro. «Ho bisogno di farti un’intervista, quando ci incontriamo?», chiedo. So che Matteo è restio a farsi intervistare e a rilasciare dichiarazioni ed è chiaro che la mia domanda è in bilico. «Di persona?», ribatte. Per me le interviste migliori avvengono nel momento del companatico, quando si condivide fisicamente il pane. Ma gli impegni sono tanti e ci si accorda per un orario. Al giorno prestabilito tutti i piani, come accade sempre spesso per opera della Provvidenza, si modificano all’ultimo lasciandoci in balìa delle circostanze. Allora la mia proposta si fa viva: «Pranziamo assieme, mangiamo qualcosa e parliamo». Stavolta l’idea viene accettata immediatamente: «Guarda che non son vestito per cose di livello, eh», mi ammonisce ma sono pronto. Si mangerà in un luogo “da operai”, per confondersi.
Così attendo Matteo in un tavolo imbandito nella schietta semplicità d’una mensa da osteria: a chi si scandalizza, l’esempio da citare è in primis quello dei vecchi parroci del secondo dopoguerra in Bisiacaria, basti pensare alle uscite a Pieris del parroco di San Canzian, don Mario Trampus. L’abito non fa il monaco, quindi la cornice non può far dedurre l’eventuale ampiezza e portata dei discorsi. Così lasciamo, con l’arrivo di un amico sacerdote che per privacy non citeremo, la tranquillità del pasto al pasto, e l’intervista all’intervista.
«Mi sono accorto che non dico sì a qualcosa ma sì a qualcuno», mi ribadisce Matteo che alla mia domanda sul suo essere pronto al passo risponde candidamente: «No!». Ride, ben sapendo che, in fondo in fondo, quel “no” è una risposta interiormente positiva.
Ci si domanda in primis cosa voglia dire fare – ed essere – sacerdote nel XXI secolo. «La sfida – precisa Matteo – è la complessità. Il ministero è una cosa nuova perché i riferimenti culturali precedenti sono già tramontati. Serviranno percorsi nuovi anche con il coraggio di prendere nuove iniziative. Diceva sant’Ignazio di Antiochia, “nella mia umanità io ho Dio dentro di me”. Ecco perché dobbiamo tornare ai padri che guardavano alle risorse umane che avevano. Queste idee, queste concezioni sono ancora fortemente attuali».
Padri che, come lui stesso racconta, «parlavano poco della figura del sacerdote in quanto tale, ma di cristiano in generale. Solo Sant’Agostino cita una divisione un po’ più “netta” tra sacerdoti e laici, mettiamola così. I padri ci parlano di un Cristianesimo quasi sovversivo. La Lettera a Diogneto è un esempio calzante nel quale si parla di chi è il vero cristiano. Torna il tema della Theosis, l’uomo è il luogo della manifestazione di Dio. Non è il Dio della Cappella Sistina di Michelangelo. Dobbiamo capire che il sacerdozio è uno, quello di Cristo. Poi c’è una divisione tra sacerdozio battesimale e sacerdozio ordinato, certo, che è il servizio».
«Giustino diceva che sono da ritenere cristiani anche atei come Platone perché erano in contatto con il Logos. Scrittura, celebrazione, preghiera dovrebbero essere gradi fondamentali e vicini. Alcune figure più importanti, nel nostro passato di Chiesa, erano laici: Giovanni Battista lo era, Maria, Gesù stesso. Sono gli stessi sacerdoti che condannarono Gesù che ribadisce come “Il Figlio dell’Uomo dovrà soffrire molto a causa degli anziani”», rileva Matteo che propone una ricetta. «La ricetta è portare se stessi e non una carica, un titolo, non un amministratore ma qualcuno cui ci si possa fidare. La differenza è voler bene, tenerci, amare».
Ricordo, allora, l’intervista che aveva rilasciato alla parrocchia di Gorgonzola per presentarsi alla comunità, nella quale aveva ribadito: «Credo fermamente che la vita sia un dono meraviglioso di cui rendere grazie a Dio, e credo anche che l’unica persona che sia mai vissuta pienamente in accordo e all’altezza di questa realtà sia Gesù Cristo. È nel suo Vangelo che continuo a trovar pace ed è a questa sua pace che vorrei accompagnare, in un modo o nell’altro, più persone possibili.
Matteo ricorda il percorso, dalla celebrazione della cresima e, come i coetanei, quasi una fuga dalla Chiesa e dalla parrocchia, il riavvicinamento graduale con lo studio della teologia e, non ultima, la scelta di diventare sacerdote nata dall’esempio di un professore, don Giorgio Giordani.
«Dal punto di vista “ecclesiale” sono uno di quei ragazzi che subito dopo la cresima ha lasciato la parrocchia; non per fastidi o chissà che opposizioni o ribellioni, ma semplicemente perché non era qualcosa che mi interessasse più di tanto. Ogni tanto mi capitava di tornare a messa la domenica mattina ma quasi sempre solo nelle grandi festività. Durante gli anni delle superiori, la letteratura e la filosofia mi hanno aperto a molti interrogativi che, sempre di più, hanno occupato il mio tempo e i miei interessi (decisivo è stato l’incontro con sant’Agostino e le sue “Confessioni”). Arrivato al momento di scegliere un indirizzo di studio universitario, mi sono reso conto che l’interesse su Dio e la teologia era molto più grande di quello verso tutte le altre materie e così mi sono iscritto all’Istituto di Scienze Religiose di Udine», così Matteo.
«Al secondo anno d’istituto siamo andati a Castelmonte come ultima lezione con don Giorgio. Vedendo l’omelia mi sono sentito vicino al Signore, anche se nel tempo ci sono stati vari momenti in cui ho percepito la Sua presenza. Quindi mi sono confrontato con don Giorgio e senza quei dialoghi non credo avrei potuto intraprendere il percorso. Un percorso a volte difficile, con momenti nei quali mi sono sentito gioioso fino a momenti di disagio. Un percorso che continua nella vita», racconta.
La penna, nello scrivere, è lenta e i pensieri da memorizzare per il giornalista sono tanti. Ci si mette anche la cartuccia da cambiare e Matteo ne approfitta per rilanciare una domanda, quasi classica in questi casi: «Beh, che vuoi sapere? Versetto preferito?». Preso in contropiede, verificato che la cartuccia fosse operativa, ricambio la domanda quasi indispettito. «Immagino non ce ne sia uno solo, per uno che la Scrittura l’ha studiata e analizzata anche nelle lingue antiche..». In effetti è così: «In primis la lettera agli Efesini nella quale San Paolo parla di “un solo Dio”. Ma anche l’episodio che vede protagonista il re Davide nel secondo libro di Samuele quando Simeì insultava il re. Ai servitori che si proponevano di ucciderlo Davide rispose dicendo “Se maledice, è perché il Signore gli ha detto: Maledici Davide! E chi potrà dire: Perché fai così?”. Va detto che Davide prosegue il cammino con Simeì che continua a insultarlo…». Insomma, ci si mette nelle mani dell’Onnipotente. Tra le fonti non vi è soltanto la Sacra Scrittura, «perché non posso non citare “Foglie d’erba” di Walt Whitman».
«Quella che sento – ammette – è un’attrazione senza la quale non posso stare. Non un’immagine tranquillissima», sorride. Va citato anche il forte legame con il mondo scout che ha avuto modo di conoscere durante l’anno di servizio in parrocchia a Grado e che, dopo il percorso a Gorgonzola, prosegue anche nella parrocchia di San Giuseppe a Monfalcone. «Proprio il 19 farò la promessa in Piazza Capitolo con il gruppo Monfalcone 3. Sarà una giornata decisamente emozionante». Un “doppio ingresso”, sia nel sacerdozio che, ufficialmente, nel mondo scout. Un mondo che lo sta aiutando, va detto, anche per quanto riguarda imparare lo sloveno, piano piano. Anche se questa è un’altra storia.
Ci si lascia nella consapevolezza che un futuro semplice, o comunque tracciato, non si profili per il giovane clero che verrà. La società cambia, anche troppo in fretta, e le necessità sono sempre più diverse e disparate. Matteo mi lascia con più domande che risposte: a me i dubbi, da deformazione professionale, restano spesso e vorrei continuare a discutere. Tra citazioni della Scrittura e analogie con il presente e la vita quotidiana il tempo, però, scorre. Io lo lascio con l’immagine di quel sacerdote statunitense che, nel mezzo della pioggia e in un incidente che poi si rivelerà mortale, va a dare l’estrema unzione e il viatico a un moribondo. “Sacerdos in aeternum”, sacerdote per sempre come si suole cantare per un prete novello. Un augurio non da poco che mi sento di fare dal profondo, in sincerità.
Sono passati giorni e l’intervista era già finita e trascritta quando anche il cammino di Matteo, seppur con una tappa in meno tra Castelmonte e Pontebba, si era concluso. Così abbiamo ripreso il dialogo per dare degna conclusione a quanto solo accennato durante la prima intervista e per fornire un senso locale alla citazione petrarchesca. «Mi hanno aiutato le meditazioni del cardinal Martini su Davide. La cosa particolare e che continua a sorprendermi quando accade (non è la prima volta), è che le letture e le meditazioni proposte sembravano intrecciarsi perfettamente. Accade qualche volta che la lettura simbolica e narrativa delle cose coincida con l’esperienza che si sta vivendo», racconta Matteo.
«C’è da dire che non l’ho fatto tutto il cammino celeste. Passato Castelmonte mi è stato chiaro che avrei dovuto modificare le varie tappe. La fatica e l’ascesa stavano pian piano soppiantando il tempo della meditazione. Non dico che il cammino in sé non mi abbia fatto scoprire alcune cose e che non abbia una dimensione davvero spirituale – ho la netta sensazione di aver percorso più chilometri dentro di me che fuori di me – eppure avevo bisogno anche di altro. Le tappe mi stavano instillando una sorta di “ricerca della performance” che mi stava portando su strade che non mi piacevano. In vista del ministero penso sia una preziosa lezione», ammette.
Cammino anche come esempio di vita. «Il cammino ha sicuramente delle forti analogie con la vita. Potrei elencare un sacco di metafore e intuizioni che l’esperienza del cammino mi ha comunicato, ma sarebbero tante. Una, penso, sia particolarmente preziosa: ogni notte, compresa quella prima di partire, sono stato invaso da pensieri di sconforto e fatica. Sorto il sole e uscito all’aria aperta, tutta questa negatività spariva e lasciava il posto alla bellezza e alla voglia di continuare il cammino», racconta Matteo. Che sia, dunque, il vero augurio per l’essere sacerdote vivendo la Parola di giorno in giorno.

a cura di Ivan Bianchi