Tra vita “vera” e algoritmi digitali

Questa domenica celebriamo la “Giornata di Voce Isontina”, un momento dedicato alla promozione del nostro settimanale diocesano ma anche occasione per discutere e confrontarsi su tematiche che riguardano i nuovi media, la stampa, la comunicazione e il lavoro del giornalista.
Al centro dell’attenzione nell’ultimo periodo in particolar modo l’Intelligenza Artificiale e tutto ciò che essa comporta non solo nei cambiamenti legati al nostro modo di comunicare, ma anche e soprattutto alle modifiche che sta apportando nella società e nel modo di relazionarsi tra uomo e macchina.
Affrontiamo queste tematiche assieme al professor Marco Centorrino, professore associato di Sociologia della Comunicazione all’Università di Messina.

Professore, l’Intelligenza Artificiale è sempre più al centro del dibattito generale, è stata anche tematica della recente Marcia per la Pace e papa Francesco l’ha scelta anche per la Giornata delle Comunicazioni sociali 2024. Proprio nel suo messaggio per questa Giornata, il Papa pone l’attenzione sugli algoritmi che stanno dietro I.A. e Social Media: “È importante guidare l’intelligenza artificiale e gli algoritmi, perché vi sia in ognuno una consapevolezza responsabile nell’uso e nello sviluppo di queste forme differenti di comunicazione”.
Anche lei, nel corso del recente Convegno CEI dedicato all’Evoluzione Digitale ha posto molta attenzione agli algoritmi e a quello che, inconsapevolmente, lasciamo dietro il nostro passaggio online. Quali sono in questo senso le sue preoccupazioni e a cosa consiglia di fare attenzione?

Quando nacque il web, gli algoritmi furono utili a comprendere le preferenze degli utenti e a proporre loro contenuti coerenti con le aspettative manifestate (assumendo una funzione chiave in termini di personalizzazione).
Con il passare degli anni, però, le potenzialità di questo meccanismo apparvero sempre più evidenti in termini di formazione delle opinioni e, oggi, si è giunti a un ribaltamento dei rapporti di forza.
Il ruolo degli algoritmi è andato oltre quello di aiutarci a trovare nel cyberspazio informazioni utili.
Hanno iniziato, infatti, anche a definire la rilevanza delle conoscenze, le strade per acquisirle, i modi per partecipare a discussioni pubbliche ad esse collegate.
Gli algoritmi hanno assunto il potere di abilitare ed assegnare significatività, di indirizzarci verso comfort zone in cui domina un pensiero unico, fatalmente coincidente con il nostro, di creare le condizioni per l’incontro con la realtà sia naturale che sociale. Tutto ciò, tra l’altro, contrasta in modo netto con la loro relativa “invisibilità”. Gli algoritmi digitali – come ha scritto Massimo Mazzotti – pervadono la nostra vita in un modo che non ha paralleli con altre pratiche formalizzate e quantitative studiate dai sociologi: questo è l’elemento più preoccupante.
Ci fanno senz’altro comodo: chi preferirebbe, ad esempio, sfogliare centinaia di siti Internet, piuttosto che affidarsi a un motore di ricerca, capace di offrirci i risultati in quello che – secondo la macchina – è l’ordine di importanza? Dobbiamo fare attenzione, però, a non impigrirci nell’uso delle tecnologie, perché questo significa lasciare che siano altri – attraverso gli algoritmi, appunto – a dettarci le regole di utilizzo e a imporci contenuti.

Papa Francesco denota molta preoccupazione verso i più fragili: nel messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali parla di “nuove sfide affinché le macchine non contribuiscano a diffondere un sistema di disinformazione a larga scala e non aumentino anche la solitudine di chi già è solo” e nel recente incontro con la delegazione di giornalisti dei Settimanali cattolici li ha esortati a “far crescere una cittadinanza mediale tutelata, sostenere presidi di libertà informativa e promuovere la coscienza civica, perché siano riconosciuti diritti e doveri anche in questo campo. È una questione di democrazia comunicativa”.
A livello sociologico a che cambiamento stiamo assistendo? Quanto è reale l’individualizzazione della società? Dobbiamo averne timore o è una “naturale evoluzione” a suo avviso?

Innanzitutto, stiamo assistendo a una situazione paradossale.
Da un lato – come ha messo in risalto già qualche anno fa Enrico Pedemonte – le élites internazionali (giornali, intellettuali, un numero crescente di politici) stanno mettendo sotto processo i giganti dell’high tech per difendere dal loro crescente potere i cittadini.
Dall’altra i cittadini sembrano di tutt’altro avviso: i servizi forniti dalle aziende digitali hanno un altissimo gradimento e la discussione sui freni da porre al loro crescente potere non interessa più di tanto.
Le élites culturali vogliono difendere il popolo, ma il popolo non sembra interessato a essere difeso da élites sempre meno amate.
Ciò si collega in modo diretto al tema dell’individualismo: una società individualista è una società in cui il meccanismo della rappresentanza (basato su interessi collettivi e non singoli) entra inevitabilmente in crisi.
Che l’individualismo sia cifra distintiva della società contemporanea è, ormai, chiaro: lo confermano tante ricerche a livello globale e nazionale (penso, ad esempio, all’ultimo rapporto Censis). Si tratta di una naturale evoluzione, perché è un percorso iniziato già da oltre due secoli, con l’avvento della modernità.
Non è, però, un “male necessario”: esiste una risposta, un’alternativa, rappresentata dal desiderio di fare comunità.

Si diceva che dopo il Covid saremmo usciti più forti, coesi e migliori. Leggendo però i commenti sotto qualsiasi post su qualsiasi Social, non sembra però proprio così: la “maleducazione digitale” sembra invece dilagante. Come mai, secondo lei, tutta questa cattiveria Social? Quanto peso ha in questo l’essere “protetti” da uno schermo?

Derrick de Kerckhove, erede intellettuale di Marshall McLuhan, ha spiegato che la pandemia ha rappresentato una “tempesta perfetta”, che ha accelerato i processi di trasformazione della società. Tutte le emergenze, d’altronde, costituiscono una spinta nei confronti delle dinamiche storiche già in atto.
Sulle basi di questa premessa, ritengo che alcuni fenomeni, come ad esempio l’hate speech, siano direttamente connessi a quel processo indicato con il termine gamification, originatosi a partire dagli anni ’80 del Novecento e, appunto, sempre più radicato nella nostra cultura dopo la pandemia.
In estrema sintesi, parliamo di una dinamica che ci porta ad adottare nel nostro comportamento quotidiano logiche tipiche del videogioco, emancipate dalla dimensione ludica.
Solo per fare un esempio, pensate al funzionamento delle app dedicate alla salute: ci fissano obiettivi, ci danno piccoli premi, ci fanno “superare i livelli” ponendoci nuovi traguardi, ecc.
Dentro il videogioco, però, non esistono conseguenze irreversibili: quando colpisco un nemico, so di non provocargli reale dolore; quando “muoio”, so che basterà premere un tasto per continuare a giocare…
Allo stesso modo, dietro uno schermo, non avverto le reali conseguenze dell’insulto, dell’attacco frontale ad altre persone.

I ragazzi e ragazzini oggi usano Chat Gpt come fosse un amico con cui chiacchierare. Certo, da un punto di vista sociologico il progresso è impressionante e desta meraviglia; ma dal punto di vista pedagogico e sociologico, non rischiamo un impoverimento relazionale? O forse siamo solo timorosi per qualcosa di nuovo?

Personalmente non parlerei genericamente di “impoverimento relazionale”. Dal punto di vista quantitativo, anzi, le tecnologie digitali hanno moltiplicato le reti relazionali.
Il problema è prettamente qualitativo: se le relazioni con la macchina sostituissero quelle con gli individui, sarebbe un serio problema.
Tuttavia, questi erano gli stessi timori che accompagnarono l’avvento del web alla fine del Novecento e, in larga parte, si sono rivelati infondati.
Piuttosto, ciò che mi preoccupa maggiormente, per rifarmi alla risposta iniziale, è il fatto che qualcuno possa dettarci le regole e le modalità delle relazioni, assegnare loro significatività, indirizzarci verso determinati gruppi piuttosto che altri.
a cura di Selina Trevisan