“C’era una volta lo spargher…”

Cera una volta lo spargher, e c’è ancora, fulcro della casa, come l’osteria lo era del paese. A San Michele del Carso, i ritmi scorrono naturalmente nella rinomata Lokanda Devetak, che ha superato il ragguardevole traguardo dei 150 anni, meritando importanti riconoscimenti; da ultimo, la Stella Verde Michelin (2023), per la sostenibilità della ristorazione. La parola locanda rinvia alle stazioni di posta, alle insegne in ferro battuto, alla vita di avanti ieri che, in questo caso, ha resistito alla scomparsa della civiltà contadina. Secondo l’antropologo Enrico Maria Mili¤, che all’impresa dei Devetak ha dedicato il libro “La locanda ai margini d’Europa” (BEE 2023), il segreto è nella “resistenza sentimentale” della famiglia, che si alimenta del rispetto per le tradizioni, gli antenati, la terra. Terra di confine che ha conosciuto le tragedie di due guerre mondiali, le derive nazionalistiche, i rancori post bellici. Laddove la cortina era di ferro, non lo era però la cucina, transfrontaliera prima del Gect Go. Cucina mitteleuropea, che ha reso la Lokanda un luogo di accoglienza, di sapori, di memorie.
Ce lo racconta il titolare, Avguštin Devetak.

Gentile Avguštin, la prima ospitalità, offerta in un capanno dal tetto di paglia, fu un’idea del trisavolo Ivan il vecchio, di mestiere calzolaio.

Il piccolo ambiente dove ci troviamo, l’osteria, è il cuore antico della Lokanda. Qui, mentre Ivan riparava le scarpe, la moglie Marija serviva pane, salame e un bicchiere di vino ai clienti. Così guadagnavano qualche corona in più. La licenza di aprire un posto di ristoro si data al 1870. Poi fu la volta del bisnonno Ivan lo zoppo. Grazie alla dote e all’intraprendenza della moglie Marijana, aumentò l’offerta di cibo per compaesani e viandanti, e la casa ebbe il tetto in lose. La Prima guerra mondiale costrinse la famiglia al trasferimento nei campi profughi, dove morì Ivan lo zoppo. Al rientro, il figlio Avguštin trovò solo macerie: ricostruì la casa e ricominciò da capo.

Il nonno di cui porta il nome…

Avguštin si chiamavano il nonno e lo zio che, dopo l’armistizio del ’43, fu deportato in un campo di lavoro in Germania. La minestra secca della nonna Žuta gli arrivava regolarmente per posta.
Quando i nazisti abbandonarono il campo, lo zio scrisse una cartolina anticipando che sarebbe ritornato a casa, ma morì avvelenato, avendo bevuto l’acqua contaminata lasciata dai tedeschi. La notizia della sua morte giunse alla famiglia prima della cartolina in cui egli annunciava la liberazione. Era “il sorriso di San Michele”: donava allegria suonando la fisarmonica. Un altro Avguštin fu mio cugino, morto prematuro.
Sento la responsabilità morale del nome, che fa memoria anche delle sofferenze vissute dalle madri.

Le donne, in casa Devetak, hanno un ruolo chiave. Dell’ospitalità, per anni si è occupata mamma Helka. Ora è sua moglie Gabriella la cuoca, aiutata dalla cognata Nerina.

Papà Renato lavorava nei campi. La cura della casa, l’accudimento dei figli, la conduzione dell’osteria erano affidate a mia madre Helka, sempre sorridente. Quando chiese aiuto in cucina, mia moglie alzò la mano. Gabriella, bresciana di nascita, mai avrebbe pensato di diventare una cuoca. La suocera le diede piena fiducia. Il primo giorno lasciò libera metà lavagna della cucina, perché la nuora potesse scrivere le sue proposte, mettendosi alla prova.

Senza un progetto di vita, senza passione e fatica, il viaggio non sarebbe arrivato così lontano. Ora al timone è la sesta generazione. Che cosa significa per lei famiglia?

Famiglia è volersi bene, aiutarsi, dialogare. Se in famiglia c’è armonia, se la fede ti sostiene, si affrontano le sfide più complicate. Le nostre figlie hanno scelto di proseguire nel solco tracciato: Sara guidando l’azienda agricola, Tatjana, Tjaša, Mihaela dividendosi tra sala, cantina e cucina. A loro non abbiamo mai parlato male del lavoro. Sentono i valori della famiglia, il richiamo della natura.

La cucina è tradizione e ricerca, qualità e sperimentazione. Sentire le radici ma anche “volare” nel proprio tempo.

Aprirsi al nuovo è necessario. Gabriella, pur restando fedele alla tradizione, ha rivisitato i piatti tipici, con misura. La šelinka, la minestra carsolina, a base di sedano, carote, fagioli, patate, è più leggera rispetto alla ricetta classica: al posto delle cotiche di maiale e del pepe, osso di prosciutto e un po’ di paprika. Si cuoce a fuoco lento, sullo spargher a legna, per 8 ore. Si reinterpreta il passato, senza tradirlo.

Il 26 ottobre 2016 l’allora Capo di Stato della Repubblica di Slovenia Borut Pahor e il Presidente Sergio Mattarella, dopo aver reso onore, a Doberdò del Lago, ai soldati sloveni caduti nella Prima guerra mondiale, sedettero alla stessa tavola, vostri ospiti. Che effetto le fece il clima di fraternità che riavvicinava popoli a lungo divisi?

Fu una giornata indimenticabile. Nessuno avrebbe mai immaginato che si potesse arrivare ad un gesto storicamente così importante. La nostra lokanda ospitò il pranzo della riconciliazione tra i due Paesi. Durò due ore e mezzo, in un’atmosfera di sincera convivialità. Si è preparato un menu che tenesse conto delle esigenze dei Presidenti, serviti esclusivamente da noi della famiglia. Grande la soddisfazione per il loro apprezzamento.

Questo territorio, che fu teatro di aspre contrapposizioni e di sanguinosi conflitti, dopo prove di dialogo e segni di amicizia, vedrà Gorizia e Nova Gorica gemellate quali Capitali europee della Cultura. Con il mandato di diventare “una sola città di pace”, come auspicato dall’Arcivescovo Redaelli. Dalla Lokanda, laboratorio di convivenza, con quali aspettative si guarda a Go!2025?

Con ottimismo, anche se c’è poco coordinamento, poca cooperazione sul territorio. Manca un programma, mancano strutture di ospitalità. Si dovrebbe lavorare pensando agli sviluppi di lungo periodo, al 2035, ad una prospettiva più ampia di futuro.

Annarita Cecchin

(foto tratta dalla pagina: https://www.facebook.com/LokandaDevetak/)