“Distinguere nei sogni il falso dal vero”

Erano le 21 del 9 marzo 2020.
In un drammatico intervento televisivo, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, annunciava il lockdown: “le nostre abitudini vanno cambiate ora. Dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa per il bene dell’Italia”. Era la chiusura imposta al Paese per cercare di contenere in qualche modo il diffondersi di quel nemico invisibile – il Covid-19 -, palesatosi improvvisamente ed alla cui diffusione sembrava quasi impossibile opporre argini di contenimento.
Fu l’Italia delle mascherine, delle strade deserte, del silenzio delle città lacerato dal suono delle sirene delle autoambulanze, delle file di camion militari che portavano via innumerevoli casse da morto… Immagini e suoni di un passato prossimo che appare, però, trapassato remoto o, addirittura, appartenere ad un incubo vissuto collettivamente ma della cui realtà non siamo più quasi sicuri.
Ed allora, viene da chiedersi, cosa rimanga oggi di quell’esperienza? Siamo riusciti ad evitare il rischio prospettato nella Pentecoste del 2020 da papa Francesco quando ammonì che “peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi”?
Certamente se guardiamo a quei giorni rimane, innanzitutto, il vuoto per le migliaia di persone, a noi anche vicine e care, che la pandemia ha ucciso. Ma oltre a questo?
Gli anziani ci raccontavano con orgoglio che le distruzioni delle guerre erano diventate motivo ed occasione di ripresa: economica, sociale ed umana. Dalla morte era rifiorita la speranza e la vita.
Questa volta non è stato così ed abbiamo preferito illuderci che non fosse accaduto nulla. Divenendo simili a quei vecchi, cantati da Guccini, che “non sanno, nel loro pensiero, distinguer nei sogni il falso dal vero”.
I medici sono passati in pochi mesi da eroi a dimenticati: vittime di aggressioni, accuse, minacce ed ostaggio di una sanità pubblica impreparata allora ad affrontare l’emergenza e che oggi, ancora più depauperata di mezzi e fondi, assiste impotente alla fuga degli specialisti verso il privato.
I nostri ragazzi continuano a portare nel profondo del loro Dna le cicatrici di quei mesi. Continuano a subire le conseguenze di quella lontananza dai compagni e da ogni luogo di socialità e le ripercussioni della paura provata nel constatare che anche gli adulti non potevano più rappresentare un riferimento certo ed un porto sicuro vittime, com’erano a loro volta, del terrore per quanto stava avvenendo.
Troppi fra quei bambini, fra quei ragazzi, fra quegli adolescenti non hanno abbandonato da quel momento il mondo virtuale dove si erano rinchiusi: le loro giornate non sono più illuminate dalla luce del sole ma da quella blu degli schermi dei computer perennemente accesi.
I banchi delle chiese sono rimasti desolatamente vuoti anche quando sono stati tolti gli adesivi che ammonivano: “Non sedetevi qui!” mentre molti oratori appaiono sempre più silenziosi in attesa di chi pare, però, avere definitivamente smarrito la loro strada.
La solidarietà internazionale si è ormai ridotta a mera chimera definitivamente sopraffatta dalla “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” già preannunciata da papa Francesco a Redipuglia nel 2014 ed a cui stiamo assistendo impotenti.
E si potrebbero fare ancora tanti esempi di questo tipo…
Come credenti siamo chiamati, però, nonostante tutto e tutti, ad essere ancora testimoni di quella Speranza di cui ci sarà chiesto di rendere ragione.
Il pensiero va, allora, ai ministeri laicali “inventati dal nulla”, alle diakonie vissute in quei giorni anche nelle nostre comunità: a chi, da quattro anni, continua ad offrire il proprio servizio di accoglienza nelle chiese; a chi prosegue nel prestare la propria esperienza nell’aiuto
del doposcuola ai ragazzi; a chi non ha cessato di bussare alle porte di tanti anziani per fargli uscire da una solitudine sempre troppo lunga; a chi ha scoperto di poter essere utile al prossimo anche nel tempo della pensione; agli adolescenti che proprio in quei giorni di chiusura si sono fatti apertura comprendendo cosa volesse dire essere animatori ed educatori dei più piccoli…
Certamente (anche nei nostri ambienti) a molti è stato detto: “L’emergenza è finita; si torna alla normalità e non servite più”. Fortunatamente, però, gli esempi di speranza attorno a noi sono ancora tanti: basta saperli vedere con un cuore aperto ed essere coscienti che la (lunga) ripartenza inizia proprio da loro.
Anche nella Chiesa.

Mauro Ungaro

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)