La Parola di Dio non ha concluso la sua missione

Il primo martedì di Quaresima, nella liturgia della Parola, abbiamo ascoltato nella prima lettura un testo che conosciamo molto bene e che cantiamo spesso nelle nostre chiese:
Così dice il Signore:
“… così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. Is 55,10-11
La traduzione che ho meditato qui in Messico termina così: “y cumplirá su misión”. E compirà la sua missione. Mi sono soffermato su questa traduzione e mi sono chiesto se la Parola del Signore ha già compiuto la sua missione.
Credo che tutti siamo concordi nell’affermare che la risposta è NO. È sufficiente guardare la realtà che ci circonda per renderci conto di quanto manchi Dio in questo mondo. Se poi ci mettiamo a guardare anche dentro di noi… beh, allora ciascuno sa quanto manchi questa Parola e può chiedersi se essa ha già compiuto tutto ciò per cui Dio l’ha mandata.
Il tempo di Quaresima viene proprio per darci la possibilità di far crescere la Parola in noi.
Voglio partire da questo semplice incontro con la Parola di Dio vissuta all’inizio della Quaresima per condividere qualche pensiero sul significato dell’essere missionari oggi, senza pretendere di dare una spiegazione teologica, quanto piuttosto di condividere tre aspetti della mia esperienza di missionario, dopo dieci anni nella periferia di Città del Messico.
Il primo aspetto si riferisce al dover uscire da sé stessi. Essere missionari oggi significa innanzitutto avere il coraggio di uscire dalle proprie idee, dalla propria cultura, dal proprio modo di pensare, per andare incontro all’altro. Proprio come ha fatto Dio con noi, “uscendo da sé stesso”, nell’incarnazione del Figlio è venuto a vivere quello che noi viviamo. La missione quindi inizia quando cominciamo ad aprici all’altro, vivendo un esodo dal nostro essere. Non è facile. Quando sono arrivato in Messico ho dovuto cominciare a cambiare tante cose in me. A partire dalla lingua, fino ad abituarmi al cibo – ad esempio quello piccante, che non avevo mai mangiato e che, dopo un “battesimo di fuoco”, oggi apprezzo moltissimo -. La missione quindi inizia quando cominciamo ad aprici all’altro, vivendo un esodo dal nostro essere. Non è facile. Quando sono arrivato in Messico ho dovuto cominciare a cambiare tante cose in me. A partire dalla lingua, fino ad abituarmi al cibo – ad esempio quello piccante, che non avevo mai mangiato e che, dopo un “battesimo di fuoco”, oggi apprezzo moltissimo -. Ma ancora di più ho dovuto cambiare il mio modo di vedere il mondo, cercando di entrare nella mentalità di un popolo diverso dal mio. Solo così ho potuto scoprire la fede dei Messicani e condividere il mio incontro con Dio. Credo che questo valga per tutti, anche per quanti continuano a vivere nel paese dove sono nati.
Non è forse vero che, quando due persone si innamorano e vogliono costruire una famiglia, devono cominciare a uscire da sé stesse per andare incontro all’altro e cominciare a capirlo? Solo così, vivendo la relazione con l’altro, come una missione, come un esodo, allora si può iniziare a sperimentare un amore di donazione e non di egoismo. La missione, quindi, inizia sempre da un uscire da noi stessi.
Missione poi per me significa andare alle periferie, come ci dice Papa Francesco.
Significa essere cristiani disposti a sporcarci le mani nei luoghi dove nessuno vuole andare. Le periferie possono essere le più diverse, come ci ricorda il Papa nella Evangelii Gaudium (geografiche, esistenziali, sociali, spirituali), l’importante è andarci. In questi dieci anni di missione ho incontrato vari tipi di periferie, dalla povertà materiale estrema alla povertà morale, dalla violenza all’idolatria. E ho scoperto che non è facile stare in queste periferie. Costa fatica e molte volte non si riceve nemmeno un grazie.
Ma è proprio lì, che c’è bisogno della missione della Parola di Dio. E se non vogliamo essere cristiani ipocriti, allora dobbiamo essere cristiani dell’amore verso le povertà della periferia, perché Dio è venuto nella periferia del nostro mondo per darci vita.
Infine, un ultimo aspetto. Essere missionari oggi per me significa aver incontrato veramente l’amore di Cristo e soprattutto la sua misericordia infinita. Non si segue Cristo solo per decisione razionale ma per un coinvolgimento profondo e personale.
Per questa ragione l’annuncio del Vangelo non è una strategia ma un atto di amore, una risposta alla misericordia infinita di Dio per me. Se non vivo personalmente l’incontro di Dio, che viene anzitutto ad incontrare le mie periferie esistenziali, allora non posso essere missionario nelle periferie.
Essere missionari oggi è un tema di grande rilevanza nel contesto della Chiesa e della fede cristiana. Quanto ho condiviso è solo una piccola riflessione personale con la quale ho voluto sottolineare che essere missionari oggi è anzitutto frutto di un incontro personale con Dio che dà senso alla vita e ti fa uscire da te stesso per andare incontro all’altro, soprattutto al più povero e lontano.
Che il tempo di Quaresima possa favorire questo incontro con Dio per riattivare un processo di conversione che ci permetta di andare incontro all’altro fino ai confini della terra.
Sì, c’è ancora tanto bisogno di missionari che annuncino la Parola di Dio, perché Questa non ha ancora concluso la sua missione!
Buon cammino di Quaresima a tutti voi.
don Aldo Vittor, missionario in Messico