Medici di base: se per i pazienti l’unica cosa importante è “avere la ricetta”

In tempi dove Internet dà una risposta a tutto, fare i medici non è più come una volta quando era la loro voce l’unica e sapiente, faro nel buio della malattia. Se a questo ci sommiamo i tagli alla sanità e tanti altri problemi strutturali, il risultato è che il “camice bianco” oggigiorno, non è […]

8 Marzo 2024

In tempi dove Internet dà una risposta a tutto, fare i medici non è più come una volta quando era la loro voce l’unica e sapiente, faro nel buio della malattia.
Se a questo ci sommiamo i tagli alla sanità e tanti altri problemi strutturali, il risultato è che il “camice bianco” oggigiorno, non è più una posizione consolidata di pregio e autorevolezza.
Lo sa bene chi ha vissuto questo trapasso e che, con nostalgia, si guarda ancora alle spalle per una professione che è cambiata troppo velocemente e che probabilmente, anche per i nuovi medici, deve ancora trovare un punto di equilibrio.

Elisabetta, parlaci del tuo esordio.

La mia prima esperienza di lavoro è stata a Grado in un ambulatorio durante un’estate afosissima dell’83 dove io sopra i miei vestiti dovevo comunque avere il camice abbottonato e con le maniche lunghe. Un caldo infernale in anni in cui l’aria condizionata non esisteva. Allora la figura del medico era qualcosa di “sacro” e quella sacralità era rappresentata dal camice che indossavo, averne uno in famiglia era una benedizione ed effettivamente avevamo un potere incredibile di aiutare realmente e risolvere tanti problemi di salute della gente.

In oltre 40 anni di servizio qual è stato il tuo modo di cura delle persone?

Educandole alla consapevolezza della propria salute, ad una vita sana ed equilibrata. Questo ovviamente quando era possibile, altre volte, in particolare nelle comunità carcerarie e di recupero tossicodipendenti, ne sono stata vicina accompagnandole per quanto mi era possibile.

E poi cosa è successo?

Negli ultimi anni noi medici di base siamo diventati servi dei nostri pazienti. Loro vedono le cure su internet, sui social, per sentito dire (nel migliore dei casi in sedute specialistiche) e si rivolgono a noi affinché noi eseguiamo.
Tutto si riduce nel “fare la ricetta”.

Da quando è così per l’esattezza?

È stata una progressione dagli anni 2000, peggiorata in tempi di Covid perché, con la fuga di molti colleghi che sono andati in pensione anticipatamente piegati dal carico eccessivo, di colpo per chi restava (e io in quegli anni ero in servizio per le visite a domicilio per i pazienti infettati dal Covid appunto) significava passare dall’ordinario centinaio di pazienti a quasi un migliaio.
La politica del “mi serve questo, mi faccia la ricetta” ha prevalso sul buon senso e mi sono trovata subissata non da richieste di cura ma di esecuzione veloce. Ho dovuto abbandonare molti servizi che seguivo per fare unicamente il medico di famiglia.

Cosa comunque rara e preziosa di questi tempi.

Da decenni allertavamo chi di dovere che saremmo giunti alla situazione di oggi, la matematica dimostrava oggettivamente che sarebbe arrivato il giorno zero con la maggioranza dei medici in pensione tutti insieme.

Se tornassi indietro, rifaresti il medico?

Sapendo com’è la situazione oggi ci penserei meglio e forse preferirei quelle che erano le mie seconde scelte: l’ispettrice di polizia o la matematica.

Negi anni dei tuoi studi (1974) sentivi discriminazione di genere?

No, tutt’altro: eravamo già allora tantissime matricole donne e anche in Ospedale c’erano molte dottoresse che allora venivano chiamate “Signore” ma per rispetto ulteriore riservato alle donne. Oggi invece chiamare una dottoressa “Signora” significherebbe dequalificarla. Sono cambiati i tempi e i linguaggi.

Uno dei momenti di recente maggior paura è stato sicuramente il periodo pandemico. Tu come l’hai vissuto?

Molti ne avevano paura ma in me è prevalso lo spirito da “Indiana Jones” e aderii senza timore ai servizi di prima linea vicino ai pazienti infettati (Usca), come poi feci tanti anni prima con i malati di Aids quando ero l’unica dottoressa in tutta la Provincia. Non ho mai avuto paura e forse in questo mi ha aiutato una certa incoscienza. Per l’Aids poi mi impegnai molto anche a rompere certe morbosità attraverso lezioni e confronti scolastici perché allora, esserne malati, significava essere additati omosessuali (in anni in cui non esisteva certo un clima di inclusione).

E delle vaccinazioni anti Covid cosa ne pensi? C’è stata una profonda frattura tra vaccinati e no e tanto astio è corso.

Io sono rimasta fedele alla scienza che ho studiato e ho esercitato per anni e non mi sono mai lasciata condizionare dalle tante voci e dai tanti colleghi diffidenti. Voglio poi ricordare che anni prima nel mondo medico successe la stessa cosa a proposito delle vaccinazioni antinfluenzali che, se all’inizio furono sbarrati con estrema diffidenza da molti medici poi, dopo che fu garantita una retribuzione per ogni vaccino, scoppiò la moda di vaccinare.

Vuoi dire che mentre i più scomodano teorie alla base di tanti medici c’è solo un mancato guadagno?

Si.

Ora sei in pensione, sei felice?

Purtroppo si. Mi mancano tanto le persone e continuare a sentirmi utile per loro.