Israele – Hamas: i 100 giorni

Il Medio Oriente continua ad essere scosso da bombardamenti e minacce di nuovi fronti bellici.
Sono da poco trascorsi 100 giorni da quel 7 ottobre che ha mutato inaspettatamente e all’improvviso le sorti di tutta l’area.
Daniele Rocchi, giornalista dell’Agenzia di Stampa Sir ed esperto di Medio Oriente, è da pochi giorni rientrato da Gerusalemme, dove ritornerà già questa settimana. Lo abbiamo contattato telefonicamente e con lui abbiamo fatto il punto della situazione, cercando anche di comprendere quali “pieghe” potrà prendere il conflitto e se vi sono spiragli di riappacificazione.

Daniele, si sta per celebrare la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, la Giornata per il Dialogo tra cattolici ed ebrei e siamo a pochi giorni dalla Giornata della Memoria. Tutti momenti che ci invitano a riflettere su quanto sta succedendo proprio ora. Per meglio comprendere, qual è in questo momento la situazione in Terrasanta?

Sottolineo anche un’altra data, ovvero i 100 giorni (il 14 gennaio) dall’attacco terroristico del 7 ottobre da parte di Hamas ad Israele.
La situazione sul campo vede in atto a Gaza combattimenti soprattutto nella zona sud, il nord sembra essere stato messo “in sicurezza” e sotto controllo da parte dell’esercito israeliano, anche se all’interno della zona nord continuano a vivere circa 400.000 abitanti di Gaza; non tutti infatti hanno seguito l’imposizione, da parte dell’esercito israeliano, di evacuare verso sud.
Svariate decine di migliaia di persone sono invece scese, ma è proprio a sud dove attualmente si registrano i maggiori combattimenti. Rispetto alle prime settimane di guerra ora assistiamo ad una guerra di bassa intensità, quindi sostanzialmente un conflitto dove l’esercito israeliano cerca di stanare i miliziani di Hamas con l’ausilio di droni e dell’aviazione, ma non siamo più di fronte – o almeno questo riportano i nostri contatti in loco – a dei bombardamenti a tappeto come avveniva all’inizio. Questo non significa che l’occupazione sia migliorata sotto il profilo umanitario, anzi…

Dal punto di vista umanitario, cosa sta succedendo?

Siamo davanti ad una crisi umanitaria impressionante. Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, proprio il 16 gennaio scorso ha stilato una sorta di bilancio delle vittime: quelle palestinesi hanno superato le 24.000, i feriti sono circa 60.000, i bambini uccisi sono circa 8.000 – numeri che sono ovviamente tutti da verificare ma sembrano dati in difetto, perché c’è un tema di cui poco si parla: non si computano quelle che potrebbero diventare vittime a tutti gli effetti, coloro che sono rimasti sotto le macerie dei bombardamenti e che sostanzialmente nessuno poi ha soccorso -.
Da parte israeliana sono morte oltre 1.200 persone, tutte uccise il 7 ottobre; 192 i soldati morti in battaglia, cui si aggiungono altri 200 all’interno dei kibbutz presi d’assalto da Hamas.
Stiamo parlando di una guerra con purtroppo numeri incredibili se messi a confronto con le precedenti campagne militari a Gaza, dove la durata dei combattimenti era molto limitata e anche il numero dei morti; indubbiamente questo è un punto di svolta nella storia di Gaza e nella storia di Israele.

A fronte di questi numeri, qual è la situazione degli aiuti umanitari?

Gli aiuti umanitari stanno arrivando ma sono centellinati. Consideriamo che, prima della guerra, entravano a Gaza oltre 500 tir al giorno e non erano comunque sufficienti; ora ne sono entrati, nei primi 2 mesi di conflitto, qualcosa come 3.500, veramente moltissimi di meno rispetto al passato, quindi ancor più insufficienti rispetto ai reali bisogni della popolazione.
È chiaro che il tema degli aiuti umanitari impone una riflessione anche sul tema dei diritti delle persone che sono a Gaza. Ci sono regole di ingaggio nelle guerre che vanno rispettate e c’è una violazione evidente del diritto umanitario internazionale da parte di Israele, su questo credo che anche l’ONU abbia detto la sua.
La scorsa settimana ha iniziato il suo lavoro come Coordinatore umanitario della Ricostruzione per Gaza il sottosegretario generale dell’ONU Sigrid Kaag e questo in linea con la risoluzione 2720 del Consiglio di Sicurezza.
Ciò che si chiede a tutti gli Stati e alle parti in conflitto è una piena collaborazione, perché chiaramente questo mandato, stabilito dalla risoluzione, può essere compiuto solo con la più ampia cooperazione da parte dei Paesi in lotta e della Comunità internazionale.

Ci sono prospettive di pace? Se sì, quali e come verranno ottenute?

Onestamente, in questa fase è difficile dire se ci sono delle prospettive di pace, personalmente abbasserei un po’ il livello delle aspettative; sarebbe già molto se si arrivasse a una tregua umanitaria e a un cessate il fuoco. Finora non si è arrivati a nessun tipo di accordo in questo senso, si discute invece molto riguardo la liberazione degli ostaggi. Ce ne sono al momento oltre 130 in mano ad Hamas e questa è una situazione che impone ad Hamas e Israele dei contatti, mediati in modo particolare da Egitto e Qatar.
Credo quindi che prima di parlare di prospettive future di pace e di negoziati, bisognerà capire innanzitutto la fine degli ostaggi – se saranno liberati, come, quali richieste vi saranno alla base, quali accordi saranno fatti -; in secondo luogo che cosa Israele intenderà fare di Gaza non appena avrà terminato le operazioni militari – si parla di 6 mesi/1 anno -. Al momento, a ogni domanda di questo tipo posta a Netanyahu, il premier israeliano non ha mai risposto con chiarezza e compiutezza.
C’è poi tutto il discorso che comprende la Cisgiordania e la West Bank, città come Ramallah, Nablus, Jenin, Hebron, Betlemme… vivono in uno stato di continua tensione: l’esercito israeliano penetra nelle città nottetempo e preleva persone ritenute attiviste o terroriste, o semplicemente fiancheggiatrici. Penetrano nelle abitazioni, creando scompiglio, incidenti, scontri. Questo è uno degli effetti collaterali della guerra che si sta svolgendo a Gaza.
In Cisgiordania è anche aumentata la violenza dei coloni – che sostanzialmente girano armati, spalleggiati dal Governo di estrema destra – nei confronti della popolazione palestinese, mettendola ulteriormente sotto pressione.
Sono questi tutti elementi che vanno ad ingigantire una guerra che rischia di allargarsi.

A tal proposito, ci sono rischi reali che il conflitto si espanda? Quali le posizioni ma anche le influenze dei Paesi limitrofi?

Abbiamo il fronte di Gaza, abbiamo le tensioni in Cisgiordania ma abbiamo anche a sud, zona Mar Rosso, i ribelli Houthi, finanziati dall’Iran, che attaccano le navi – commerciali e non – occidentali, hanno lanciato razzi anche verso Israele; altro punto è quello rappresentato da Hezbolla in Libano, al confine nord con Israele, che oltre ad essere un’organizzazione politica è soprattutto militare, con grandi potenzialità belliche; un allargamento in Libano sarebbe veramente grave e porterebbe ad un’escalation probabilmente senz’appello in questa zona.
La domanda da farsi è se Israele, come anche Hezbolla, vogliano ingaggiare una guerra dove il primo dovrebbe aprire un nuovo fronte, il secondo dovrebbe fronteggiare la potenza israeliana. Al momento qualcuno parla di “schermaglie” ma la preoccupazione della comunità internazionale e della stessa ONU è evidente. Nessuno vuole questo allargamento, perché chiaramente porterebbe altri morti, altri feriti, altri sfollati; nessuno se lo può permettere in una situazione come l’attuale.
Consideriamo poi che a Gaza ci sono sfollati dal nord verso il sud, ma Gaza è fondamentalmente una gabbia, una prigione a cielo aperto, ci si sposta da una parte all’altra ma sempre lì si rimane perché è un luogo chiuso, sigillato. Normalmente il 75% della popolazione di Gaza è già di per sé sfollata dalle precedenti campagne militari.
La stessa cosa vale per Betlemme, città completamente sigillata, da dove si entra e si esce con difficoltà, solo persone che sono riuscite a mantenere permessi speciali di lavoro possono entrare e uscire.
In Israele inoltre abbiamo, dal Golan e dai kibbutz vicini Gaza, circa 200.000 sfollati israeliani, accolti negli alberghi di Gerusalemme, nella zona di Herat e nelle zone intorno al Lago di Tiberiade.

Che Natale è stato quello vissuto all’interno delle comunità cristiane in Terrasanta?

È stato un Natale privo di luci, di speranza, di pellegrini. Un Natale dimesso, triste. Questa è l’immagine che ho avuto in questi giorni di permanenza. Ho avuto modo di vedere Betlemme che possiamo definire un po’ la città “capitale” del Natale e del Cristianesimo in questo periodo: non aveva simboli del Natale, nessuna luminaria, nessuna decorazione, anche l’ingresso solenne del Custode e del Patriarca Latino è stato svolto con un “basso profilo”, senza grosse espressioni tradizionali quali parate, fanfare, cortei Scout… è stato qualcosa di molto “freddo”, d’altronde non c’era proprio lo spirito per festeggiare, almeno esteriormente. La celebrazione del Natale è stata quindi più di tipo spirituale.
Vedere poi tutto il commercio e le attività ricettive chiuse, sapere che tante persone e tante famiglie sono disoccupate a causa del blocco dei pellegrinaggi, fa capire quanto sia difficile la vita a Betlemme e in queste zone. Si è fermata l’economia, si è fermata la vita. È stato un Natale triste.
Vorrei inoltre ricordare questo. A Gaza c’è una piccola comunità cristiana, composta da poco più di 1000 persone, su una base di popolazione di 2milioni 300mila cittadini. Hanno trovato rifugio in due parrocchie, una greco ortodossa, l’altra latina, quindi cattolica. Entrambe sono state bombardate e colpite, quella greco ortodossa in maniera pesante e conta anche 18 morti; l’altra riporta danni importanti.
Le due parrocchie si trovano a Gaza City, nella zona nord che doveva essere evacuata; i cristiani hanno deciso di restare nelle parrocchie, tutti di cono “se dobbiamo morire, vogliamo morire in chiesa, perché questa è la nostra casa e qui ci sentiamo al sicuro; la nostra fede ci dice che solo Gesù è la nostra salvezza”. Credo che questa enorme forza di fede vada a sottolineare, in un momento di disperazione come quello che milioni di persone stanno vivendo a Gaza, una lezione che ci arriva da un piccolo gregge di cristiani e credo che per noi cristiani cattolici, ma un po’ per tutti, queste persone vadano ricordate, perché in questo modo ricordiamo tutti gli abitanti di Gaza, che innocentemente stanno pagando una guerra che nessuno vuole.

Dopo i fatti del 7 ottobre ci si attendeva solidarietà ad Israele, invece si sono manifestati nuovi e numerosi sentimenti antiebraici. Da cosa ritieni dipenda questo sentire?

Credo che all’inizio Israele abbia goduto un po’ della solidarietà di tutti, andata poi scemando dopo il 7 ottobre, quanto più aumentava la virulenza dell’offensiva a Gaza e le notizie di morti tra donne e bambini, l’uccisione di civili, i bombardamenti a tappeto. Credo che questo abbia influito e inciso sull’opinione pubblica internazionale, per cui c’è stato un po’ di risentimento per la sproporzionata risposta di Israele ad Hamas.
A questo aggiungiamo, purtroppo, anche rigurgiti di antisemitismo che hanno aggiunto ulteriore acidità di opinione contro Israele, soprattutto a mezzo social.
Il governo di estrema destra di Netanyahu chiaramente non gode della simpatia della comunità internazionale e questo in qualche maniera ritengo abbia influito e molto.
L’auspicio di tutti è che ci sia un cessate il fuoco, una tregua umanitaria, che le persone possano ritrovare un po’ di cure, anche e soprattutto sanitarie, che gli ostaggi vengano liberati tutti; sulla base di questa tregua poi magari cercare una “exit strategy” di questa guerra.
Se la comunità internazionale non prende una posizione comune, credo che arrivare a ciò sarà difficile.
A cura di Selina Trevisan

(Foto parrocchia latina di Gaza)