Pulchra ut luna

Sui massmedia italiani trova in questi giorni largo spazio il rosario.E non perché ci stiamo avviando alla conclusione di maggio, mese tradizionalmente mariano che proprio nella recita del rosario esprime una delle sue devozioni più diffuse e sentite.Si parla del rosario perché viene ancora una volta usato come arma da brandire per invocare l’affermazione di un cristianesimo che con l’insegnamento di Gesù ha ben poco da spartire.Eppure per comprendere il rosario – non riducendolo a semplice oggetto o formula magici – bisogna necessariamente ritornare e ripartire dal Vangelo. Da quel lieto annuncio che Gesù stesso, facendo proprie nella sinagoga di Nazareth le parole del profeta Isaia, ricorda essere destinato in primo luogo ai poveri, ai prigionieri, ai ciechi, agli oppressi. Di ieri come di oggi.Pregare Maria è pregare Colei che nulla tiene per sé ma tutto porta al Figlio. La Chiesa le si rivolge nella tradizione descrivendola “pulchra ut luna”, bella come la luna: possiamo ammirare la bellezza del nostro satellite unicamente perché nella notte riflette la luce del sole  così come Maria riflette la luce di Dio.La vittoria a cui Maria porta l’uomo non può, allora, che essere rappresentata dal ricevere in eredità “il regno preparato dal Padre fin dalla fondazione del mondo”. Ma per arrivarci la strada per il credente è segnata in maniera inequivocabile dalle parole del Figlio: “ho avuto fame…, ho avuto sete…, ero forestiero…, ero nudo, malato, carcerato…”.