Contro il colera un sorso di grappa ed una masticata di aglio

L’epidemia da Covid-19 non è l’unica che ha colpito non solo l’Italia ma gran parte del mondo. Limitandoci agli ultimi sessant’anni è ancora fresco il ricordo della Sars, nel 2003, un virus della stessa famiglia dell’attuale coronavirus, molto più letale ma che le autorità sanitarie riuscirono a contenere rapidamente. I più anziani ricordano l’influenza chiamata “asiatica”  del 1957, anche quella giunta dalla Cina, e nel 1969  quella chiamata di Hong Kong: pandemie che misero a letto milioni di italiani e che causarono  migliaia di morti.Nella memoria collettiva restano però ancora vive le due pandemie  che si svilupparono durante la prima guerra mondiale e che causarono milioni di morti: il colera nel 1915 e la febbre spagnola tra il 1918 e 1919. Due virus portati dai soldati in guerra, diffusisi nelle trincee, e trasmessi poi anche alla popolazione civile. Di queste due epidemie ci raccontano le molte testimonianze messe per iscritto e  raccolte nei libri di storia. Come i diari  delle Suore Cappuccine di Loano, che prestarono il loro servizio da infermiere a Cormons dall’agosto del 1915 alla fine di ottobre del 1917 in due ospedali militari, che durante la prima guerra mondiale ospitarono  i colerosi: l’ospedale militare n. 230 di Langoris (oggi Angoris) e il lazzaretto di San Quirino. Le religiose erano giunte a Cormons nell’agosto 1915 richieste da don  Giuseppe Torchio, cappellano militare della II^ Armata.Le prime avvisaglie della presenza del colera nelle nostre zone si ebbero a marzo  del 1915, ma i decessi cominciarono a raggiungere cifre  consistenti nell’estate. Scrive suor Filomena Ravera nel suo diario di guerra: “Nell’agosto  erano ospiti 155 soldati colerosi e nei primi giorni ne morivano anche venti al giorno. Era una cosa che faceva pietà, tante giovani vite  soccombere sotto la falce  della morte. (…) Si arrivò al mese di novembre fino a 94  morti al giorno”. La religiosa alla fine dell’epidemia  fa anche un bilancio  complessivo dei deceduti nell’ospedale di Langoris: “Su 16 mila morirono 1300 tutti  confortati dai S.S. Sacramenti”.Non diversa la situazione nell’ospedale-lazzaretto di San Quirino  dove, oltre all’ospedale militare da campo n. 231, c’erano specifici reparti dove venivano ricoverati  i civili affetti da colera e internati per la quarantena i loro familiari. Il lazzaretto, gestito dalla sezione Sanità di Napoli,  era “ricavato da una casa colonica con annesso fienile e pagliaio, 72  posti letto  nel fienile, 84 nel pagliaio  e un centinaio in casa, più c’erano le tende”, annota la diarista suor Leopolda Cadenosso. Le religiose infermiere dovettero indossare  la cappa bianca con una  croce rossa sul petto  e “per essere più facile  la disinfestazione  stante l’epidemia, portavamo  anche grossi stivali  e scarpe  di gomma essendo il pavimento  allagato da disinfettante a base di creolina e calce. e questa  disinfezione  durò  fino al termine dell’infezione  che fu  tra febbraio e marzo 1916”.Ma come si comportava la popolazione dinanzi al colera? Uno spaccato di vita quotidiana ce lo dà il maestro Luigi Zoffi, che da San Lorenzo Isontino era sfollato sul Quarin, in un suo articolo ospitato su Voce diocesana del 25 agosto 1963 e poi ripreso nel suo libro “Storie del mio paese”.  “I morti vengono portati via con furgoni, i familiari soni internati nel lazzaretto, non suonano più le campane  – scrive Zoffi -. Ho visto in paese in paese ragazze che fumavano sigari per disinfettare la bocca, chi non fuma mastica spicchi di aglio (…), ma una cosa buona dicono sia l’acquavite; berne qualche sorso e bagnare le mani”.La gente indubbiamente aveva paura anche perché era praticamente impotente contro la malattia e non c’erano poi quelle informazioni che oggi noi possediamo.   A Cormons, secondo uno studio compiuto da Giovanni Battista Panzera sfogliando i registri  dei seppellimento  del cimitero civile e quello dei morti in parrocchia e pubblicato su “Cormons 1914-18”, nel 1915 morirono ufficialmente di colera 60 persone, ma si può affermare che  il numero saliva a 249 se si consideravano le malattie connesse all’epidemia. Infatti si registrarono tra gli altri 143 i casi di gastroenterite, 57 di enterite, 13 di tifo , tre di febbre tifoide, un disinfezione intestinale  e due di colera asiatico. “Per molti – sostiene Panzera –  non è stata denunciata la vera causa  di morte, alfine di evitare probabilmente  l’internamento  nel lazzaretto di intere famiglie”. Questo viene confermato anche da Zoffi riferendosi alla morte per colera di una sua zia: “Il dottor Guido Benardelli  (medico condotto a Cormons, ndr.) non aveva denunciato il caso di colera. Lo aveva fatto solo per un piccolo numero. Tutti gli altri  recavano la denominazione di gastroenterite acuta. In questo modo  aveva  scongiurato a tante famiglie il pericolo del lazzaretto. Cormons dovrebbe esserne  riconoscente”. E i cormonesi ebbero nei confronti di Benardelli parole di stima per la sua professione associata anche a una grande  umanità. E non esitarono a difenderlo quando, tornati dopo Caporetto, gli Austriaci misero sotto processo il medico per alto tradimento. Bernardelli era un liberale, faceva parte  del gruppo cormonese  di irredentisti, e nei giorni precedenti al ritorno degli Austriaci lasciò Cormons proprio per evitare di essere imprigionato. C’era ancora la guerra quando nella primavera del 1918 si affacciò un altro spettro, la “spagnola” che nel suo dilagare  in tutto il mondo mandò all’altro mondo  milioni di persone, chi dice 50 chi di più non guardando in faccia nessuno, sia il soldato in trincea o il giovani studente che illustri personaggi del mondo della politica e della cultura. Una epidemia che per motivi bellici venne tenuta nascosta per mesi e  fatta conoscere dalla Spagna – da qui il nome di spagnola – che allora non era un Paese belligerante. In Italia secondo una statistica si registrarono 375mila morti, per altri  furono  quasi il doppio. Nell’impero austroungarico si contarono 2 milioni di morti e questo perché molti soldati austriaci erano debilitati  per una sottoalimentazione, dovuta a una forte crisi economica. L’Austria negli ultimi mesi della guerra  era quasi ridotta alla fame.Nel 1918  ci furono due ondate di epidemia:  la prima in primavera con bassa percentuale  di decessi; la seconda in autunno  con una diffusione rapida e letale. L’influenza colpì in modo particolare i giovani tra i 18 e i 30 anni con decessi che si aggirarono intorno all’8%.  A Cormons e Brazzano, secondo quanto riporta il libro “Cormons-Brazzano 1917-1918”, i malati furono 1555 e si verificarono 72 decessi.Anche nel caso  della febbre spagnola non c’era una medicina specifica per  debellarla. Sui giornali dell’epoca comparivano pubblicità che per debellare il virus invitano a  usare il melitolo oppure  a usare acqua di colonia  che “disinfetta, rinfresca e uccide i microorganismi”. Ma c’era chi sperimentava sistemi artigianali come quello usato dalla manzanese  Emma Beltrame che nel suo “Diario della Grande guerra” scrive di aver usato delle vinacce: “Ne presi una manciata, la misi a bollire; venne  un profumo come di vino bollito, Diedi una tazzina a tutti gli ammalati: è stata come una manna  dal cielo, si sentirono  tutti sollevati forse perché avrà avuto una piccola sostanza di alcol e perciò  si sono ripresi subito. Continuai a dare quella bevanda  finché fu finita”.