Mediterraneo, frontiera di pace

Firenze ha ospitato nei giorni scorsi la seconda edizione del forum “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Conferenza episcopale italiana cui hanno partecipato vescovi e sindaci provenienti da 20 diversi Paesi su tutte le sponde del Mediterraneo.La Conferenza si poneva come obiettivo il rilanciare l’interesse verso l’area mediterranea, attraverso il dialogo tra le sue principali città, favorendo e promuovendo azioni di supporto per la cooperazione e la pace. All’incontro ha partecipato anche l’arcivescovo mons. Carlo nella sua veste di presidente della Caritas italiana. Lo abbiamo incontrato a poche ore dal rientro in diocesi chiedendogli di condividere con i lettori di Voce quanto vissuto nel capoluogo toscano.

Monsignore, i giorni del forum fiorentino sono stati purtroppo segnati dalle tragiche notizie provenienti dall’Ucraina. Qual è stata l’eco di quegli avvenimenti a Firenze?Certamente quanto sta accadendo in Ucraina ha avuto un’eco molto dolorosa durante l’incontro tenuto per di più conto che il nostro ritrovarci dapprima come vescovi e poi insieme ai sindaci aveva come tema centrale proprio il richiamo alla pace.Non dobbiamo dimenticare che attorno al Mediterraneo si combattono ancora molte guerre. Fra noi erano presenti i Patriarchi della Siria, quelli del Libano e dell’Irak – tutte terre devastate da sanguinosi conflitti – mentre i vescovi della Libia non hanno potuto raggiungere Firenze a causa della situazione di instabilità che sta vivendo il loro Paese.C’è stata un’intuizione che ci hanno presentato i sindaci e che, nel contesto attuale, assume un particolare significato: il dialogo fra le città può assumere un ruolo sempre più importante nel futuro del Mediterraneo e delle sue popolazioni. Le città non hanno eserciti (a differenza di quanto avviene per gli Stati) ma sono fatte di persone che vivono ogni giorno la propria esistenza, impegnandosi nel lavoro ed intessendo reti di rapporti sociali: persone che vogliono la pace.Forse quanto stiamo vedendo in questi giorni (e penso in modo particolare alle manifestazioni spontanee contro la guerra che si stanno svolgendo in tutto il modo interessando anche diverse città della Federazione Russa) ci dice quanto i cittadini vogliano comunque avere un proprio ruolo nel difendere la pace. E questo significa difendere la vita nella quotidianità delle proprie città.

Nella prima edizione dell’incontro sul Mediterraneo, due anni fa a Bari, il professor Roccucci denunciava il pericolo della riabilitazione della guerra come strumento legittimo per risolvere i problemi della società. Parole che si sono dimostrate sin troppo presto profetiche. Perché si è giunti a questo punto? La storia tragica europea del secolo scorso non ha proprio insegnato nulla agli uomini del terzo millennio?Purtroppo la tentazione di risolvere i problemi fra gli Stati attraverso la guerra permane ed è sempre molto forte.Mi ha colpito che all’Angelus di domenica scorsa, papa Francesco abbia espressamente citato il testo della Costituzione italiana nella parte in cui afferma che il nostro Paese ripudia la guerra come strumento per regolare i rapporti, le eventuali tensioni ed i conflitti internazionali.Probabilmente non siamo stati ancora capaci di sviluppare a livello europeo una riflessione approfondita sulle cause e le conseguenze delle due guerre mondiali che hanno sconvolto il secolo scorso: esse sono nate nel contesto tipicamente europeo contrassegnato, per di più, da un preciso riferimento alla cristianità. Anche oggi chi si trova in guerra professa una fede cristiana e questo non può lasciarci indifferenti. In questo senso la storia ci insegna molto ma ogni generazione deve reimparare ed evitare quelle scelte che apparentemente risultano più facili ed immediate da assumere: penso al muro contro muro, alla guerra contro la guerra, alle armi contro le armi… La storia dovrebbe ricordarci che alla fine, comunque, è necessario trovare un accordo e riconoscere in qualche modo anche le ragioni dell’altro, evitando di metterlo in situazioni che non presentano vie d’uscita.Mi hanno colpito le parole di un vescovo che invitava a non ripetere ai giorni nostri quanto fatto con la Germania dopo la prima guerra mondiale: allora la pesantezza delle sanzioni imposte creò unicamente le premesse per un nuovo conflitto.

Che apporto possono dare le Chiese e le istituzioni che hanno come riferimento il Mediterraneo perché la voce delle diplomazie copra il fragore delle armi e si ripercorra la via della pace?In questi giorni ho visto ancora una volta quanto sia importante conoscersi, parlarsi, tenere conto delle diverse sensibilità e del fatto che le stesse parole possono assumere significati diversi in contesti differenti. Riferirsi, ad esempio, alla cittadinanza in ambito occidentale esprime un concetto collegato alla laicità dello stato; nel Medio Oriente – e non solo – la cittadinanza, invece, è anche legata all’appartenenza religiosa.Ecco perché conoscersi diventa importantissimo!Un’altra intuizione molto bella proposta dai sindaci e fatta nostra come vescovi è quella di realizzare una specie di “Università del Mediterraneo”. Il concretizzarsi di questa “Erasmus del Mare Nostrum” favorirebbe lo scambio dei giovani, offrendo loro l’opportunità di non studiare solo nel proprio Paese e di conoscere quindi la sensibilità, la mentalità, il modo di pensare e di agire presenti negli altri Stati. Non si tratterebbe di diventare “una cosa indifferenziata”: ciascuno manterrebbe la propria identità sapendo, però che questa non è l’unica ed esiste sempre la possibilità di un dialogo. Si tratta di lavorare sul lungo periodo ma è fondamentale costruire il futuro e farlo partendo dalla formazione dei giovani.

Che ruolo ha oggi il Mediterraneo nel panorama geopolitico internazionale?Se guardiamo la carta del mondo, ci accorgiamo che il Mediterraneo è piccolo. Giorgio La Pira, sindaco santo di Firenze, che ha avuto intuizioni incredibili già negli anni Cinquanta del secolo scorso lo definiva come “un grande lago di Tiberiade”. Pur non essendo una realtà molto vasta esso è il luogo dove sono nate le tre grandi religioni monoteiste e dove hanno avuto la propria culla culture molto antiche. Ovviamente non dobbiamo avere una visione centrata solo sul Mediterraneo, dimenticandoci dell’apporto di altre culture altrettanto importanti quali l’indiana, la cinese o la giapponese per non parlare di quella dell’America Latina…Quella del Mediterraneo, però, può essere una realtà molto significativa proprio perché consente lo scambio di culture ed offre la possibilità di costruire insieme qualcosa. È significativo che i valori fondamentali a livello religioso e laico che segnano ancora il nostro tempo sono quelli ereditati dalle civiltà sorte nei millenni trascorsi sulle rive di questo mare: pensiamo al valore della democrazia nella civiltà greca o a quello del diritto nella civiltà romana, come pure il valore della cultura e della scienza nel mondo islamico…

Nel documento finale del Forum – la “Carta di Firenze” – si ribadisce l’importanza di fare della diversità un patrimonio condiviso. Che strade percorrere, però, perchè queste non rimangano solamente belle parole? L’esperienza del nostro territorio isontino e la storia della nostra Chiesa possono aiutare questo impegno?Nei giorni dell’incontro fiorentino ho notato da parte di diversi vescovi e sindaci attenzione e curiosità per l’esperienza di Gorizia. Mi hanno chiesto se c’è ancora il confine, come erano divise le nostre genti, che rapporti ci sono oggi fra popolazioni e Chiese che hanno come riferimento due Stati diversi… In questo senso credo che la nostra esperienza possa risultare particolarmente interessante nella misura in cui riusciamo a far vedere che il confine fisico è stato superato e che stiamo cercando di superare anche quello mentale proprio impegnandoci in un dialogo segnato dal rispetto ma anche dalla valorizzazione delle diversità. E qui ritorna ad essere fondamentale il tema della conoscenza dell’altro, dell’apprezzamento delle sottolineature e delle sensibilità che ciascuno ha.Tutto questo può diventare davvero un “patrimonio condiviso”. E per “patrimonio condiviso” non intendo un qualcosa di omogeneo o omogenizzato o semplicemente ridotto al minimo comun denominatore quanto, piuttosto, un qualcosa di molto più ricco.Nella Evangelii Gaudium, papa Francesco ha un’intuizione molto bella quando ci ricorda che la realtà non deve essere una sfera ma un poliedro: una realtà unitaria che presenta molte facce riflettenti, tutte, la stessa luce.

Nel momento in cui stavamo cominciano a guardare con più fiducia al dopo-pandemia, la paura del futuro ritorna a causa della guerra. In un momento così difficile c’è ancora spazio per la speranza?Questo è davvero un momento difficile! A Firenze qualcuno fra noi vescovi sottolineava come la generazione attuale purtroppo non abbia prospettive immediate di miglioramento rispetto alla generazione precedente: lo sapevamo già da tempo se consideravamo le questioni economiche ma ad aggravare il tutto è giunta due anni fa la pandemia e oggi le tematiche legate a questa guerra. Ma guai a noi se perdessimo la speranza!Come cristiani abbiamo sempre una speranza che non è soltanto basata sulla convinzione che alla fine ci sarà il regno di Dio ma pure sulla certezza che il Signore trova comunque la sua strada e che lo Spirito Santo parla anche al di fuori dei nostri schemi e delle nostre realtà. È lo Spirito che ci infonde fiducia offrendoci la possibilità di aprirci davvero a dei sogni di speranza per saperli concretizzare.Penso che anche adesso vi siano “in preparazione” uomini e donne capaci di raccogliere l’eredità di Giorgio La Pira. Dobbiamo credere che abbiamo già accanto dei giovani – impegnati oggi magari nella preghiera e nel silenzio, nella riflessione, nell’impegno culturale e nell’attenzione agli altri – pronti a diventare in un domani nemmeno troppo lontano un riferimento per la nostra realtà ecclesiale ed umana.