Il tempo della solidarietà

Domenica scorsa in tutte le chiese della diocesi è stato letto il Messaggio con cui l’arcivescovo Carlo Roberto Maria Redaelli ha voluto rivolgersi direttamente ai fedeli in questi momenti segnati dal diffondersi del Covid-19 che hanno portato ad una serie di disposizioni da parte del Governo fra cui anche la sospensione di tutte le messe sino al 3 aprile.

Monsignor Redaelli, nel Suo Messaggio, Lei invita a pensare agli altri, a non chiudersi in se stessi. Nel momento in cui si parla di “quarantena” appare quasi un controsenso…Di fronte a gravi problemi per i quali abbiamo la preoccupante consapevolezza che non esiste per ora una soluzione, è normale una reazione di incertezza, di paura, di “si salvi chi può”. Come anche il pensare solo a sé, ai propri cari, alle proprie cose. Ma occorre superare la prima comprensibile reazione ed è necessario metterci di fronte ai problemi con razionalità, con lucidità e con solidarietà non solo tra di noi, ma anche verso chi sta peggio di noi. Il trovarci oggi noi in difficoltà, noi che ci illudevamo di essere “al sicuro”, ci deve spingere ad avere maggiore coscienza delle tantissime situazioni nel mondo in cui le persone vivono gravissimi disagi per epidemie, malattie, calamità naturali e, purtroppo, per fame, guerre, violenze, ecc. Non per scoraggiarci o rattristarci ancora di più, ma per tenere il nostro cuore aperto all’umanità e anche la nostra preghiera: come cristiani siamo chiamati a pregare – e, dove possiamo, anche a impegnarci nel nostro piccolo – per tutta l’umanità.  

Questa situazione di emergenza mette in evidenza la nostra fragilità: ci credevamo onnipotenti e dobbiamo fare i conti con i nostri limiti, con le nostre fragilità. Quale deve essere il nostro atteggiamento di uomini di fede in queste circostanze?La Parola di Dio, attraverso i profeti, gli scritti apostolici del Nuovo Testamento e le stesse parole di Gesù nei Vangeli, ci ha sempre messo in guardia dal sentirci al sicuro, a posto, onnipotenti e dal confidare solo sulle nostre forze. Purtroppo nei momenti tutto sommato sereni ce ne dimentichiamo con facilità. Come pure viene spontaneo dare per scontato tantissime cose: la vita, la salute, il benessere, gli affetti, le relazioni sociali, ecc. Tutte realtà che, ce ne accorgiamo oggi, non sono ovvie. Anche in questo caso non vorrei apparire paradossale, ma penso che prima della supplica accorata a Dio, la fede ci spinga a ringraziare per tutto quello che abbiamo goduto finora, per quello che ancora abbiamo e si manifesta in queste circostanze (penso, per esempio, alla grande generosità e al forte impegno di tante persone che si stanno dando da fare per chi è colpito dalla malattia) e per ciò che il Signore, ne siamo certi, ci donerà in futuro. Tutto, infatti, è dono.C’è spazio poi per la supplica e l’intercessione, non immaginando interventi “magici”, perché Dio rispetta le dinamiche della natura che ha creato (salva sempre la sua  libertà di intervenire in modo straordinario …) e rispetta anche la nostra libertà e responsabilità, ma chiedendo il dono del suo aiuto per chi è malato, per i familiari, per gli operatori sanitari, per i ricercatori, per gli amministratori, ecc. Ben sapendo che comunque il Signore ci ama e manifesta il suo amore dentro le nostre difficoltà, vuole il nostro vero bene (che solo Lui alla fine sa qual è) e conduce la storia dell’umanità come storia di salvezza.  

Non mancano le perplessità e talvolta persino le polemiche, anche nella nostra diocesi, per la decisione di sospendere la celebrazione delle S. Messe. Lei nel suo Messaggio ricorda che quello che conta sono “la fede, la speranza, la carità…”. Può aiutarci a comprendere questo concetto?La decisione di sospendere la celebrazione delle Sante Messe ci è stata chiesta esplicitamente dal Governo per motivi di salute pubblica, di cui i nostri governanti hanno la grave responsabilità. Non potevamo quindi sottrarci a questa disposizione in uno spirito di collaborazione per il bene comune, pur consapevoli della centralità dell’Eucaristia per la vita del cristiano e delle comunità. Naturalmente vivo tutto questo  con sofferenza, come so che lo vivono anche i sacerdoti e molti fedeli. Poter celebrare la Messa solo privatamente, sia pure con l’intento di esprimere la fede dell’intero popolo di Dio e di intercedere per tutti, è qualcosa che ti fa sentire privo di una realtà fondamentale: la comunione concreta, fisica con il popolo di Dio. Manca ciò che anche l’antico canone romano afferma più volte: il popolo che celebra insieme con chi presiede l’Eucaristia (“Ricordati di tutti i presenti, dei quali conosci la fede e la devozione: per loro ti offriamo e anch’essi ti offrono questo sacrificio di lode”; “Accetta con benevolenza, o Padre, l’offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia”; “Noi tuoi ministri e il tuo popolo santo celebriamo il memoriale della passione, …”). E anche per il fedele è una sofferenza non poter essere parte della celebrazione dell’Eucaristia, con la propria comunità radunata attorno al sacerdote, per entrare nel mistero della Pasqua di Cristo che inserisce più profondamente nella Chiesa e sostiene ognuno affinché tutta la sua vita sia un sacrificio spirituale. L’Eucaristia, i Sacramenti, le celebrazioni comuni di preghiera, ma aggiungo anche la vita comunitaria e le attività formative e caritative sono tutte realtà fondamentali per la nostra vita di credenti, ma ciò che alla fine conta sono la fede, la speranza e la carità che quelle realtà nutrono ed esprimono. Se vengono meno (solo per il tempo necessario che tutti auspichiamo breve…), non deve venire meno la sostanza. Mi spiego: la celebrazione eucaristica ha lo scopo di metterci sacramentalmente in comunione con il sacrificio di Cristo e di renderci suo Corpo, se però non è possibile celebrarla non per questo  è compromessa la nostra comunione con il Signore, il nostro sentirci ed essere realmente uniti a Lui morto e risorto, e anche la comunione tra di noi. In paradiso non ci sarà l’Eucaristia, ma queste realtà. Ciò non significa ovviamente che qui sulla terra l’Eucaristia non sia fondamentale, ma è ancora più fondamentale ciò che essa significa.

Queste settimane sono quindi di “sospensione” di tutto ciò che costituisce la vita delle nostre comunità?Assolutamente no. Penso che in questo periodo dovremo comunque trovare modi alternativi per nutrire la nostra fede e la nostra unione con il Signore e per vivere le dimensioni tipiche della comunità cristiana.Andrà così curata la preghiera personale, anche più intensa (magari utilizzando testi comuni, come il calendario quotidiano della Parola di Dio o il sussidio preparato dal Centro missionario o altri messi a disposizione dalle parrocchie) e anche quella in famiglia; occorrerà offrire a bambini, ragazzi e adolescenti indicazioni e sussidi affinché non si interrompa l’itinerario catechetico; non dovranno venir meno, con le opportune cautele, le attività caritative e anzi dovrà svilupparsi in tutti i cristiani una maggior attenzione alle persone sole o maggiormente in difficoltà (gli anziani, i disabili, gli ammalati, chi dovesse trovarsi costretto alla quarantena, ecc.). Nei prossimi giorni sono certo che a livello diocesano, di unità pastorale, di parrocchia e di associazioni si troveranno i modi più semplici e concreti per realizzare tutto questo. Lo Spirito Santo, che tutti dobbiamo invocare, ci darà le giuste ispirazioni e la forza per attuarle.        

Non sono mancate le voci che hanno visto anche il Coronavirus come “un castigo di Dio”. Perché abbiamo sempre questa immagine di un Dio che punisce, che castiga?Immaginare un Dio giudice e “interventista” che punisce i peccati degli uomini e vedere le malattie o altre calamità come suo castigo è una visione che offre spiegazioni semplici e per questo in apparenza convincenti. Ha al di sotto anche la mancata distinzione, che già la teologia medievale aveva ben elaborato partendo dalla riflessione filosofica, tra la “causa prima” di tutto, che è Dio, e le “cause seconde”, volute da Dio ma – come sopra si ricordava – rispettate nella loro libertà,  che agiscono nella natura. In modo più grave, presenta un’idea non evangelica di Dio. Dio è Padre, Dio è amore e misericordia, vuole il nostro bene e non il nostro male. E, ne siamo certi, fa comunque in modo, rispettando la libertà nostra e del creato, che tutto alla fine concorra per il nostro bene. Una situazione come quella che stiamo vivendo può così diventare comunque occasione per purificare la nostra fede, per riscoprire l’essenziale, per comprendere insieme la nostra grandezza e la nostra fragilità, per recuperare il senso del “dono” e non del “dovuto”, per aumentare la solidarietà tra di noi e verso i bisognosi, ecc.      

In questi momenti un ruolo fondamentale nella comunicazione della fede è chiamato a svolgerlo la famiglia. Può suggerirci degli atteggiamenti concreti a riguardo? Per una serie di motivi, anche di ordine pratico, da tempo le famiglie si sono abituate a “delegare” ad altri molto di ciò che riguarda i figli: l’istruzione, lo sport, il tempo libero, l’educazione e persino la formazione religiosa. Ora si trovano nella necessità di dover tornare a essere protagoniste a cominciare dal tema dell’istruzione, vista la chiusura delle scuole. La “delega” in materia religiosa è sicuramente sbagliata, soprattutto se è totale. La fede non è una cosa tra le tante, ma è un dono prezioso, anzi il dono più prezioso che abbiamo. Se lo si percepisce così, non si può non cercare di trasmetterlo ai propri figli, certo all’interno e con l’aiuto della comunità cristiana (perché l’iniziazione alla fede e anche iniziazione alla vita della comunità), ma senza “deleghe”. La circostanza concreta della sospensione degli itinerari catechetici per bambini, ragazzi, adolescenti può diventare un’occasione importante per trovare le modalità – semplici ed efficaci – per vivere in famiglia la dimensione della fede: leggere insieme un brano di Vangelo, pregare per gli ammalati e chi in difficoltà, ragionare sul senso della malattie, proporre una visione corretta di Dio. Come si diceva sopra, sicuramente le parrocchie (anzitutto le catechiste e i catechisti) sapranno trovare modi per essere di aiuto alle famiglie.

Possiamo concludere con una parola di speranza…Sicuramente. La situazione non è facile dal punto di vista sanitario e avrà certamente pesanti riflessi anche sull’economia. Ma occorre avere fiducia: con l’aiuto di Dio e l’impegno di tutti anche questo periodo verrà superato. Ho la speranza che ne usciremo tutti più saggi, più solidali, più consapevoli di ciò che veramente conta. Concludo con due citazioni di san Paolo, entrambe tratte dalla lettera ai Romani. La prima collega fede, speranza (anche nelle tribolazioni) e carità: “Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,1-5). La seconda unisce la speranza alla letizia e dice qualcosa di importante circa la “tribolazione” e la preghiera: “Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Rm 12, 12).