Giovanna Rizzardo: una vita nelle favelas

Durante la Veglia missionaria diocesana – in programma venerdì 22 alle 20.30 nel duomo di Cervignano – verranno riproposti all’attenzione dei partecipanti la storia e l’operato della missionaria laica goriziana Giovanna Rizzardo. Abbiamo pensato di presentarne la figura, ripubblicando la sua ultima (e probabilmente anche unica!) intervista, apparsa su Voce Isontina nel dicembre 1993. Da pochi mesi Giovanna era ritornata a Gorizia, minata dalla malattia che di lì a qualche mese (il 12 marzo 1994) l’avrebbe condotta alla morte e si apprestava a ricevere l’11 dicembre a Buia il premio “Nadâl Furlan” attribuito annualmente dal Circolo culturale Laurenziano ai friulani che in Italia o nel resto del mondo si erano distinti in attività ispirate al Vangelo. L’intervista si svolse nei locali del Centro missionario diocesano: non fu semplice per lei superare la naturale timidezza e ritrosia, raccontando al microfono del giornalista quell’esperienza in terra brasiliana che durava ormai da oltre cinque lustri. All’inizio sembrava quasi scomparire nella sedia ma a poco a poco, parlando in particolare dei bambini che seguiva a Gamboa e dei progetti a cui avrebbe lavorato al ritorno in Brasile, emerse tutta la forza di una donna che aveva lasciato la sua terra e le sue certezze per rispondere alla chiamata del Signore, mettendo tutta la sua esistenza al servizio del prossimo.

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Piccola e minuta, Giovanna Rizzardo ricorda la biblica canna che pare spezzarsi di momento in momento ma che resiste anche al vento più impetuoso.Si rimane impressionati però a sentirle raccontare con disarmante naturalezza una storia lunga 26 anni, iniziata quando, dopo una vita di lavoro alla Telve di Gorizia – accompagnata dall’impegno con le piccole Fiamme tricolori dell’Azione Cattolica in Duomo – invece di pensare all’ormai prossima pensione, decide di rispondere all’appello lanciato attraverso una rivista da una comunità di missionarie laiche che richiedevano l’aiuto di una persona per la loro attività religiosa e sociale e parte, a 50 anni, per il Brasile.

Signora Rizzardo, quale fu il suo primo impatto con il Brasile? I primi quattro anni li ho trascorsi nella favela di Salvador de Bahia dandomi anche da fare per imparare la lingua. Al momento della partenza dall’Italia non conoscevo alcuna parola di portoghese ed anche per questo avevo deciso di raggiungere il Brasile in nave per studiare almeno qualche vocabolo durante una traversata durata 14 giorni. Già da allora,  in un ambiente privo di tutto, il nostro impegno si indirizzava soprattutto verso tre attività (scuola, artigianato e catechesi) che dovevano rimanere fondamentali anche in seguito.

E dopo Salvador il salto a Itaparica…Sì, dopo i quattro anni di Salvador ci hanno chiamato a Itaparica, la cosiddetta “isola degli schiavi” ed effettivamente lì sembra di trovarsi in Africa. Quest’isola rappresentava una tappa obbligata per la quarantena degli schiavi provenienti d’oltre oceano che vi venivano condotti in attesa di essere portati nella capitale della colonia portoghese, Salvador. I 10 chilometri di mare che separano Itaparica dalla terraferma e i pescecani che infestano quel tratto d’oceano erano la migliore dissuasione per eventuali idee di fuga.A Itaparica abbiamo operato per 19 anni fondando fra l’altro l’”Obra Social Cristo Rey”. Il nostro tempo si divideva fra l’educazione nella scuola materna, l’organizzazione di corsi di artigianato di maglia e cucito, la gestione di una fabbrica di maglieria in cui le donne e le ragazze possono guadagnare qualche cosa evitando quindi di dover ricorrere alla prostituzione per sopravvivere. Accanto a ciò l’attività di catechesi, la preparazione dei bambini alla prima comunione per aiutare l’unico sacerdote residente sull’isola.Dopo questo periodo lungo di lavoro siamo riusciti a consegnare la comunità per la gestione al personale brasiliano e ci siamo trasferite a Salvador.

Qual è stato il nuovo ambiente di impegno? Adesso opero nella favela di Gamboa, proprio nel centro della città di Salvador. Sopra di noi si stagliano i grattacieli: vi è una superstrada a forte scorrimento che unisce il mare alla città e sotto ogni arcata del viadotto vivono una o due famiglie in baracche fatte di lamiera, legno e cartone. Ad ogni precipitazione troppo intensa è forte il rischio di vedere rovinato tutto. I brasiliani però hanno pazienza e ricominciano subito a “ricostruire” le loro baracche prive di finestre, di acqua corrente, di fognature.Ci troviamo a dover fare i conti con una realtà particolare, a convivere anche con la violenza. Quando decisi di entrare per la prima volta nella favela dove nemmeno la polizia osava mettere piede mi dissero che ero pazza e mi consigliarono se non altro di lasciare a casa la catenina e l’orologio perché altrimenti il minimo che mi poteva capitare era di uscire spogliata di tutto. Invece sono ancora qui!Allora i bambini non andavano a scuola: vivevano per lo più di espedienti, calando magari la notte nel centro della città per assalire gli automobilisti, per commettere furti o per prostituirsi. Recentemente è scoppiato il colera: le fogne della città, infatti, scaricano in mare passando a cielo aperto fra le baracche e solo dopo questa epidemia la municipalità ha provveduto a portare l’acqua. Prima per approvvigionarsi bisognava recarsi in una caserma oltre la strada e così purtroppo molte sono state le vittime delle auto lanciate a forte velocità su quella striscia d’asfalto.

E dal vostro impegno è nato il Centro sociale…Un po’ alla volta ci siamo date da fare anche qui e così lo scorso maggio è stato inaugurato il nostro Centro comunitario, costruito con l’aiuto della diocesi di Gorizia. L’edificio è a precipizio sul mare, per edificarlo abbiamo dovuto sbancare un tratto di terreno e sopportarlo con piloni. Il giorno dell’apertura è stata veramente una festa per tutti. Da luglio sino alla fine di novembre la scuola ha ospitato al mattino 60 bambini e nel pomeriggio le donne e le ragazze per i corsi di taglio e di cucito. Pensi che la custode della scuola è una signora che 26 anni fa, al momento del mio arrivo in Brasile, incontrai proprio a Gamboa e che, come tante altre famiglie, da allora ha continuato a vivere sotto queste arcate! Dal prossimo anno probabilmente la municipalità pagherà direttamente le maestre riconoscendo in questo modo il nostro lavoro.Un aiuto ci viene dal gruppo dei giovani della parrocchia che ogni sabato fanno catechismo sotto la guida di un giovane seminarista.Voglio raccontarvi un fatto significativo capitato poco tempo fa. I bambini hanno fame: molti di loro vengono a scuola senza mangiare, solo qualcuno porta con sé un po’ di farina da impastare con l’acqua. Un giorno siamo andati in un vicino supermercato chiedendo se potevano darci qualcosa: in un primo momento la risposta è stata negativa ma dopo due giorni mi hanno richiamata e da allora ci danno ogni settimana le cose appena scadute ma ancora buone. Adesso che la scuola è chiusa li ho invitati a dare quei generi alimentari alle famiglie della favela.

Avete incontrato delle opposizioni in questo vostro impegno con gli ultimi? Non abbiamo incontrato opposizioni ma bisogna considerare che non operavamo nel Brasile agrario, dove avremmo potuto toccare gli interessi dei ricchi proprietari latifondisti, ma nelle favelas della città: le stesse autorità vedono favorevolmente quest’opera.

Dei bambini brasiliani, della violenza di cui sono vittime si occupano spesso i giornali di tutto il mondo; Lei fra quei bambini passa la sua giornata. Ci può raccontare di loro? I bambini sono meravigliosi. Quelli della favela quando vedono arrivare me o gli altri maestri, la mattina da lontano ci corrono incontro per fare festa e tra loro fanno quasi baruffa per portarci le borse, per poterci accompagnare al centro. Personalmente oltre l’attività nella favela vivo in un Lar (una specie di asilo privato) dove vi sono una trentina di bambini figli di madri che vengono anche da lontano in città per lavorare, per fare servizi nelle case e che li lasciano lì per la giornata e anche a dormire la notte. Sto con loro soprattutto la sera accompagnandoli nella preghiera e congedandomi da ciascuno con un bacio per la notte. Il giorno dell’inaugurazione del centro comunitario i bambini hanno interpretato una recita vestiti da angioletti: era commovente ma allo stesso tempo estremamente simpatico vederli agitarsi con quelle grandi ali che proprio non volevano sapere di starsene a posto ma che rappresentavano per loro una novità assoluta ed entusiasmante.

Qual è il suo collegamento con la realtà diocesana di Gorizia? Sento la diocesi vicina non solo perché mi arriva Voce Isontina – che rappresenta un grande collegamento – ma anche perché è forte la comunione nell’amicizia. L’amicizia non ha confini, non ha problemi di chilometri. Il collegamento quindi non è solo finanziario ma è soprattutto un’unione di amicizia e preghiera. Certamente se potessi ritornare indietro nel tempo rifarei con maggiore entusiasmo se possibile quella scelta di 26 anni fa perché quello che ho ricevuto è veramente molto di più di quello che ho potuto dare.

Quali progetti nel vostro futuro? La nostra preoccupazione è trovare chi ci possa sostituire.A Itaparica abbiamo lasciato l’opera in buone mani e adesso a poco a poco troveremo anche a Gamboa dei collaboratori e delle collaboratrici.Non molto lontano dal nostro centro sorge uno degli alberghi di lusso, il “Solar dell’Union” che ha ospitato numerosi partecipanti alla conferenza mondiale svoltasi proprio a Gamboa lo scorso anno. Attaccata si trova una favela. Durante i giorni della conferenza le autorità avevano cercato di fare “pulizia” e di scacciare gli abitanti della favela, di radere al suolo le baracche ma quello che cadeva la sera veniva ricostruito al mattino.È così vicina a noi quella favela, così bisognosa di aiuto che nasce la tentazione…