Dal “tu” al “Tu eterno”

Già nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione (4 ottobre) di “Fratelli tutti” era possibile consultare, online e sulla stampa, una sconfinata letteratura mediatica espressamente contraria alla nuova enciclica di papa Francesco. Secondo la maggior parte dei suoi detrattori, l’errore più grave commesso dal pontefice sarebbe stato quello di essersi concentrato troppo sugli aspetti sociali della contemporaneità, eliminando completamente lo “slancio verticale” dalla sua enciclica. Il papa avrebbe perciò evitato di parlare di realtà trascendenti, in altre parole, di ciò che riguarda Dio. Eppure di Dio e di trascendenza si parla eccome nella “Fratelli tutti”: quindi cos’è che non funziona? Se andiamo a verificare il testo dell’enciclica, ci accorgeremo subito che nella maggior parte delle volte in cui Francesco parla di trascendenza, lo fa in termini di “auto-trascendenza” (letteralmente “superamento di me stesso”) intendendo con ciò il movimento e la disposizione dell’io verso il prossimo. Certo, questa “orizzontalità” del trascendente potrebbe fare problema se noi, come in passato, continuassimo ad intendere Dio come un concetto tendenzialmente irrazionale e soggettivo, che non riguarda e non informa per niente il modo con cui ci relazioniamo con gli altri e con il mondo. Ma Dio non è questo. E non lo è – e non può esserlo – soprattutto per un cristiano che radica la sua esistenza e la sua fede nell’evento dell’Incarnazione. Se Dio infatti “si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14) l’asse verticale che, per così dire, unisce la dimensione divina con quella umana si è indissolubilmente intersecato con l’asse orizzontale che unisce gli uomini tra di loro. E non è forse questo il filo rosso che soggiace a tutta la vita e l’insegnamento di Gesù, cioè di rivelare e testimoniare la presenza di Dio in ogni piega dell’esistenza umana? A questo proposito il papa ci ricorda, inoltre, che “per i cristiani, le parole di Gesù hanno anche un’altra dimensione, trascendente” che implica “il riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso” (Fratelli tutti, 85).Francesco, quindi, non ha fatto altro che recuperare una delle primissime lezioni della Bibbia che riconosce ogni essere umano come “immagine e somiglianza” di Dio (Gn 1,27), ribadendo, con san Giovanni, che è impossibile disgiungere il modo con cui tratto il prossimo dalla mia fede in Dio: “Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello.” (1Gv 4,20-21)Con questi brevi rimandi forse comprendiamo meglio perché la Fratelli tutti tenda a soffermarsi così tanto e così a lungo su temi che riguardano principalmente il nostro rapporto con gli altri (i capitoli 2 e 4 in particolare).Comunque sia il papa non elimina la trascendenza (intesa nel suo rimando “verticale”) dal suo testo, tant’è che afferma esplicitamente: “come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Perché la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità” (Fratelli tutti, 272).Quella dunque che è stata interpretata da molti come un’ingiustificata mancanza del papa, è stata in realtà un’operazione di recupero del più autentico pensiero biblico e cristiano.A questo proposito penso sarebbe utile ed interessante riproporre il pensiero di un grande filosofo ebreo del secolo scorso che, un po’ come papa Francesco, proprio a partire dalla sua fede e dalla profonda conoscenza della Bibbia, ha fatto del rapporto dell’io con gli altri il cardine della sua filosofia: Martin Buber.Nel 1923 Martin Buber pubblicò un saggio intitolato “Io e Tu” (Ich und Du), probabilmente la sua opera più famosa. La tesi principale su cui si fonda questo scritto è che esistono due modi di relazionarsi con gli altri: il primo è quello di instaurare un rapporto di “Io-esso”, il secondo è quello di aprirsi a un rapporto di “Io-tu”. Mentre nella relazione “Io-esso” la persona che si ha davanti viene solamente “percepita” e considerata quasi al pari di un oggetto inanimato – un esso appunto -, nella relazione “Io-tu” la persona viene invece “incontrata”. Distinguere questi due tipi di relazione è tutt’altro che facile, soprattutto nella vita quotidiana e concreta.Dalla coda che si forma davanti al semaforo fino a quella che si crea in supermercato, forse un po’ tutti siamo portati a mettere tra parentesi la dimensione più vera di chi ci sta accanto e di vedere, al suo posto, una nostra costruzione mentale, che può essere influenzata sia dal contesto in cui ci troviamo che dal nostro egoismo: questo non è incontro dell’altro, ma percezione!Secondo Buber, infatti, noi siamo capaci di “incontrare” gli altri pienamente solo quando smettiamo di inserirli nei nostri schemi mentali, quando evitiamo di crearci delle aspettative su di loro e quando, semplicemente, li accogliamo nella loro radicale differenza da noi stessi. Io non posso andare alla ricerca di un “tu”, non posso disporne a mio piacimento, il “tu” può essere incontrato solo in una relazione che sia immediata, senza secondi fini o astrazioni. In altre parole, se in un rapporto “io-esso” chi mi sta davanti può essere – ahimè – conosciuto, misurato, modificato e incatenato nei miei pregiudizi, il “tu” che mi incontra per grazia è e rimane un mistero, e di lui/lei non potrò mai dire di conoscere pienamente l’identità più profonda. Di fronte a questa “presenza” il mio modo di relazionarmi, dice Buber, “deve divenire simile al patire”. Con questo però, non si intende dire che posso incontrare il mio prossimo solo se instauro con lui un rapporto di passività, anzi! Secondo le parole di papa Francesco: “non mi incontro con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico. È possibile accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto originale solo se sono saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura” (Fratelli tutti, 143).Ma c’è di più. Il “tu” che mi incontra e con il quale instauro un rapporto di reciprocità, secondo il filosofo ebreo, pur avendo un valore in se’ stesso, rimanda anche a qualcos’altro, a Qualcun altro: il “tu” è “una breccia aperta al Tu eterno che è Dio”. Quando il nostro io riesce ad incontrare e a relazionarsi con una persona senza avere pretese su di essa, quando incontra un “tu” e non un “esso”, la sua presenza si rivela senza passaggi intermedi come qualcosa di sacro. È in questo tipo di relazione, nel “tu” che ho davanti, ci vuole dire Martin Buber, che è presente ed è riscontrabile anche l’Eterno stesso. Tutto questo non ci ricorda forse quello che il Signore ci ripete nel suo Vangelo: “in verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”? (Mt 25,40)Non possiamo dimenticarci di noi stessi e di chi ci sta accanto nell’assurda illusione di poter parlare di Dio a prescindere dall’umano. Siamo andati in cerca di qualcosa che avevamo sotto gli occhi tutti i giorni e il papa, ritornando alla Parola di Dio come Martin Buber e altri grandi prima di lui, ce l’hanno semplicemente ricordato e fatto notare.