Messo alla prova

Proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Ebrei 2,18). La lettera agli Ebrei, da cui è stata tratta questa frase scelta per le immaginette pasquali di quest’anno, è il testo del Nuovo Testamento che forse più di altri sottolinea due aspetti della vicenda di Gesù: il suo essere – Lui il Figlio di Dio – realmente uomo e per questo il suo essere in grado di offrirci una reale solidarietà in particolare nei momenti della prova.Di solito si ritiene che sia più facile credere nell’umanità di Gesù che nella sua divinità. In realtà è vero proprio il contrario. Come è possibile che il Figlio di Dio si faccia bambino? Come è possibile che debba crescere progressivamente negli anni come ogni bambino, ragazzo, adolescente, giovane? Lui il Figlio del Dio Onnipotente, che l’universo intero non può contenere? Come è possibile che viva per trent’anni in un insignificante villaggio della Galilea (mai nominato nella Bibbia), partecipando alle feste, ai lutti, alle vicende quotidiani dei compaesani? Come è possibile che in quegli anni abbia lavorato da umile artigiano? Non è Lui il Creatore del mondo?E le domande divengono ancora più stringenti e drammatiche arrivando alla passione: come è possibile che abbia provato tristezza, paura e angoscia? Come ha potuto confidare ai suoi discepoli attoniti e incapaci di stare svegli un’ora con Lui, lì nell’orto degli ulivi: “la mia anima è triste fino alla morte” (Matteo 26,38)? Può essere il Figlio di Dio in preda alla paura e all’angoscia di fronte alla morte come un uomo qualunque? Può essere così spaventato e in preda a un’angoscia indicibile da sudare sangue? E Lui, il Figlio, perché grida: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” (Matteo 27,46)? Può il Padre abbandonarlo come se fosse un dannato, un maledetto, quasi l’incarnazione del peccato? Può il Figlio morire urlando come un uomo disperato (“Gesù, dando un forte grido, spirò”: Marco 15,37)?Eppure non solo il racconto della passione nei quattro Vangeli ce lo confermano, ma anche diversi passi della lettera agli Ebrei e delle lettere di san Paolo. Ecco alcuni esempi, tratti dalla lettera agli Ebrei: “Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine” (2,10-11); “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (4,15); “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (5,7-8).E san Paolo così scrive: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno” (Galati 3,13); e ancora: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2Corinti 5,21).Nei passi citati della lettera agli Ebrei e di san Paolo è facile notare il riferimento di Gesù a noi: per noi è stato sottomesso alla prova, per noi è morto in croce, per noi si è fatto maledizione e peccato. Quel “per noi” non va inteso solo come finalità, nel senso che Gesù avrebbe subito tutto questo per salvarci. Se fosse solo così, verrebbe spontanea la domanda: ma non poteva salvarci diversamente, senza passare da tutte quelle prove e sofferenze? Certo, ma allora non avrebbe dato senso alle nostre prove e sofferenze. Gesù ci ha salvato non dall’esterno, ma dentro la nostra realtà, fatta di prove, di sofferenze, di angosce, di morte, di maledizione, di peccato. La salvezza sta allora in questo: non c’è nessuna situazione esteriore o interiore in cui un uomo o una donna possono trovarsi, dove non ci sia la vicinanza reale di Gesù. Lui non è vicino solo a chi crede, ma anche a chi non ha fede. Lui non è vicino solo a chi vive santamente, ma anche a chi è immerso nel peccato. Lui non è vicino solo a chi prega, ma anche a chi maledice. Lui non è vicino solo a chi soffre con rassegnazione, ma anche a chi urla per il dolore. Lui non è vicino solo a chi muore serenamente, ma anche a chi muore disperato. E lì, misteriosamente (ma qualche volta ci è data la grazia di accorgerci della sua azione in noi o negli altri…) Lui apre alla speranza, alla salvezza, alla vita.Siamo salvati non dall’onnipotenza di Dio, ma dalla sua impotenza di uomo crocifisso, vicino e solidale con tutti i crocifissi della storia. Che la loro croce di ognuno sia visibile a tutti o dentro, nel nascondimento del cuore, non importa. La croce ci salva. La risurrezione svela solo il senso profondo della croce, è la vita nuova che sgorga come un fiume dal costato trafitto di Cristo. L’augurio di Pasqua allora non può essere che quello di non sentirci soli nella prova, nell’oscurità e persino nel peccato: Qualcuno è lì con noi, Qualcuno che si è assoggettato alla prova per noi, Qualcuno che è morto per noi e con noi. E che per questo può farci risorgere con Lui. Alleluia-