“Nova Gorica e Gorizia stessa città sotto due volti diversi”

Quattro voci, quattro racconti, quattro storie, intrecciate tra loro in quella linea che è il confine.
Un tempo frontiera, divisione netta operata dall’uomo contro l’uomo.
Un taglio sulla terra, sulle case, sulle anime delle persone e di un territorio che, nei secoli, è stato porta d’accesso, ponte di incontro, finestra sugli altri e su sé stessi.
Quel confine che si è ben guardato dal curarsi e che, al contrario, ha portato su di sé e dietro di sé totalitarismi, dittature, odii e rancori, in una dialettica incapace, spesso, di darsi la mano.
Lo hanno fatto alcuni, in vari momenti di un Novecento che ha tentato e tenta il riscatto con le parole della fratellanza e della cultura, oggi. Proprio la cultura, incentrata nella visione di un incontro fraterno di persone con lingue diverse di uno stesso popolo, è la chiave in grado di aprire antiche porte rimaste chiuse per troppo tempo.
Cultura che ha consentito al quarantaquattresimo Convegno Caritas Italiana, martedì 9 aprile, di portare oltre cinquecento convegnisti da tutta Italia oltre quel confine, a Nova Gorica, nella Concattedrale di Cristo Salvatore. Ad accoglierli il parroco, don Alojzij Kržišnik, assieme al vice, don Bogdan Vidmar e, chiaramente, al vescovo di Capodistria-Koper, monsignor Jurij Bizjak.
Don Bogdan ha rimarcato come “in questa concattedrale, contemporanea, il punto più alto della chiesa si trova sopra il tabernacolo, che è Gesù Cristo, e dalle finestre, che non si vedono, entra la luce. Come la luce di Cristo che ci irradia mentre noi ci troviamo attorno a lui”. Il sacerdote, presentando l’architettura della chiesa concattedrale, si è soffermato sulla Via Crucis, in particolare sulla scena di Maria dolente, “si vedono due volti in un’unica cornice, così come Nova Gorica e Gorizia sono la stessa città sotto due volti diversi”. “Anche se parliamo italiano e sloveno – ha concluso Vidmar – siamo tutti umani”.
“Sono molto contento e convinto, devo dire anche in generale, anche prima della odierna testimonianza, perché i giovani vedono soluzioni che noi vecchi non vediamo”, così monsignor Bizjak.
Tra le necessità rimarcate dal vescovo di Capodistria quella di far imparare l’italiano nelle scuole vicino al confine, così come lo sloveno per le scuole italiane: “Le scuole cattoliche si stanno muovendo in questa direzione, per abbattere le frontiere. L’inglese, chiaramente, rimane una lingua molto internazionale, ma quanto è bello poter condividere idee ed esperienze con i vicini di casa?”.
Il presule ha poi ricordato gli Atti degli Apostoli: “In questi giorni le letture sono in gran parte da questo libro che ci racconta della Chiesa delle origini, dove tutti si spogliavano dei propri beni e li condividevano cosicché a nessuno mancasse mai nulla. Così dobbiamo essere noi”.
Quattro, come detto, le voci che si sono alternate di fronte all’ampia platea nella concattedrale, accompagnate dal canto di un coro spontaneo di volontari della locale Caritas parrocchiale.
Alessandro Quinzi, direttore della pinacoteca, ha voluto ribadire come “sono stato battezzato Alexander Andrej perché solo Alexander, secondo il parroco, era troppo orientale. Così ci hanno aggiunto Andrej, mentre tutti gli amici mi chiamano Saša. Questo è il confine, in un’accezione che, per noi che lo viviamo, penso sia quello che Giovanni Paolo II ha ribadito a Postumia in un incontro con i giovani sloveni: “Korajža velja”, ciò che conta è il coraggio”.
La giovane Giorgia Paulin, classe 2002, studentessa all’Università di Trieste, vive il confine “a modo mio, non fisicamente bensì come qualcosa di non fisico; non mi condiziona, anche se i miei nonni mi hanno sempre raccontato dell’esodo istriano. Spero – così ancora Paulin – che i rifugiati che accogliamo possano trovare da noi la pace che abbiamo guadagnato in questi anni. Per il futuro spero, e mi impegnerò, per imparare lo sloveno”.
“La sfida che ho imparato io – ha ribadito Simon Peter Leban, invece – è stata quella di imparare l’italiano: anche se di cittadinanza italiana la mia nazionalità è slovena e il mio cuore prega e batte in sloveno. Del confine la differenza è proprio quella, far capire la differenza tra cittadinanza e nazionalità. Il confine ha storie dolorose ma è necessario lasciarle alle spalle e guardare al futuro”.
Jure Ferletic, giovane di Miren/Merna e seminarista al secondo anno di teologia a Lubiana, impegnato nella musica sacra e studente d’organo, ha raccontato in un messaggio scritto come: “Casa mia si trova a cinquanta metri dal confine con Italia. Nonostante ciò, ho vissuto per molto tempo l’Italia come un Paese straniero, perché a scuola non abbiamo imparato l’italiano, mentre abbiamo sentito cose negative sulla Seconda guerra mondiale e sugli anni precedenti. A parte lo shopping in Italia, ho fatto più conoscenze e amicizie dall’altra parte del confine quando ho frequentato la Scuola di Musica Emil Komel a Gorizia”.
Ferletic ha raccontato come, poi, non ha mai imparato “veramente l’italiano, ma l’ho imparato lentamente guardando alcune trasmissioni, in conversazioni casuali e studiando la letteratura teologica in italiano. Oggi sono grato di provenire da una zona di confine. L’incontro con la diversità può chiuderci o aprirci a conoscere meglio sé stesso e a rispettare gli altri. Come buon esempio di convivenza e cooperazione, vorrei sottolineare una esperienza pastorale estiva al Monte Lussari, dove ho avuto l’opportunità di incontrare i seminaristi, sacerdoti e i pellegrini italiani. Il confine è incontro e ci deve dare l’opportunità di vivere una qualità diversa di convivenza e di genuina accettazione reciproca e sensibilità verso l’altro”, così Ferletic.
I.B.