Il confine (purtroppo) ritrovato…

Tra le vittime del Covid-19 ce n’è una che colpisce in modo particolarmente doloroso la nostra terra: la speranza di un’Europa in cui una parola come frontiera risulti relegata ai soli libri storia accompagnandosi a verbi coniugati unicamente al passato. Dinanzi all’espandersi della pandemia, ogni Stato dell’Unione ha scelto di procedere autonomamente mentre le istituzioni comunitarie rimanevano passivamente ad osservare l’evolversi della situazione incapaci di farsi capofila di percorsi condivisi e coordinati di prevenzione e contrasto al virus. E così molti fra i Governi dei 27 hanno potuto giustificare la blindatura a macchia di leopardo dei propri confini con motivazioni supportate magari da tecnici della Sanità ma volte soprattutto ad esorcizzare (nel caos del momento) le paure della malattia ignota strizzando l’occhio alle rivendicazioni sovraniste dei propri elettori o gli interessi economici dei propri concittadini.La (giusta) prevenzione è un’altra cosa: da sempre, però, dinanzi alla morte sconosciuta l’uomo ha bisogno di individuare un untore. Ai tempi del Manzoni era magari l’inconsapevole vecchietto intento a spolverare in chiesa una panca oggi è chi proviene da un “fuori” indefinito che può cambiare di volta in volta, secondo le esigenze…E così è avvenuto anche lungo il confine fra Italia e Slovenia quando, a metà del mese di febbraio, il Governo di Lubiana ha deciso di vietare l’accesso dei cittadini italiani al proprio territorio bloccando fisicamente la quasi totalità dei passaggi abituali di transito. Rimosse ormai da tempo le vecchie ed arrugginite sbarre, si è fatto ricorso alla posa di massi o new jersey il cui messaggio non dava adito a dubbio: “di qui non si passa!”.Ed improvvisamente l’orologio del tempo ha ripreso a correre all’incontrario, riportando le genti che vivono sull’Isonzo a 75 anni or sono quando (il 15 giugno 1945) a Lubiana veniva fissata la linea Morgan che sanciva la suddivisione della Venezia Giulia fra alleati e governo titino e la nascita delle zone A e B: era il prodromo di quel Trattato firmato a Parigi nel 1947 che avrebbe diviso genti e territori fino a quel momento uniti. La striscia di calce o pittura bianca segnata dai miliari americani non si era fermata alla superficie ma era penetrata nel profondo della terra e dell’anima delle persone.Le ultime generazioni di giovani isontini e sloveni sono cresciute considerando il confine qualcosa di estraneo alla propria quotidianità.L’ideale europeo in questa parte del Vecchio continente non è un concetto astratto ma la testimonianza che l’”utopia” di Schumann, di DeGasperi, di Adenauer, di Spinelli era stata fatta propria da tanti politici locali divenendo realtà: il loro coraggio e la loro visione profetica avevano portato ad avviare il dialogo ed a costruire ponti fra persone appartenenti a quelli che allora si definivano “sistemi diversi”. E questo assumeva un valore ancora più dirompente perché avveniva in quella città che aveva visto le sue piazze, le sue strade, i suoi campi tagliati in due con violenza ben 14 anni prima che il mondo si indignasse per il muro innalzato a Berlino nel 1961. Il simbolo di questa storia è stata ed è quell’area che gli italiani chiamano “piazza della Transalpina” e gli sloveni “trg Evrope”: divisa dal filo spinato per oltre cinquant’anni, da luogo di separazione è divenuta icona della speranza per quell’Europa dei popoli che Mazzini per primo teorizzò quasi due secoli or sono. Il mosaico posato a metà della piazza, realizzato anche con parti dei vecchi cippi di confine, ha visto italiani e sloveni unirsi per festeggiare prima l’adesione di Lubiana nell’Unione Europea (il 1° maggio 2004) e poi l’estensione anche alla vicina Repubblica del trattato di Schengen (il 1° gennaio 2007): attestazione ufficiale di quella libera circolazione delle persone che in realtà, nelle terre bagnate dell’Isonzo, avveniva senza problemi già da lungo tempo. Per i turisti ormai è un classico scattare una foto ricordo poggiando il piede sinistro in uno Stato e quello destro in un altro, prima di raggiungere il vicino bar della stazione per bere un caffè. Sotto gli ombrelloni le lingue si mescolano, testimonianza sonora di un unicum che ormai gli abitanti di Gorizia e Nova Gorica danno quasi per scontato, sottovalutandone troppo spesso la portata ed il significato.Ma poi è venuto il Covid. Il ritorno del “di qua” e “di là” ha avuto come conseguenza l’impossibilità della quotidianità: la quotidianità degli acquisti ma anche degli scambi culturali; la quotidianità dei contatti fra amici che si conoscono da una vita ma anche del via vai delle signore di Nova Gorica, Šempeter, Vrtojba presenza indispensabile in tante famiglie goriziane che incrociano quegli studenti a cui risulta più conveniente vivere a Nova Gorica frequentando l’università a Gorizia; la quotidianità di chi corre o pedala ogni giorno lungo i percorsi ciclabili che costeggiano la vecchia ferrovia, la quotidianità dei giovani che si incontrano ogni volta in un locale diverso; la quotidianità dei rapporti fra Chiese…Ed ancora una volta il luogo più evidente dove tutto ciò si è manifestato è stata piazza Transalpina/trg Evrope divisa da un’alta rete metallica posata in fretta quando i selfie attestavano l’idiozia di chi voleva dimostrare di potersene infischiare dei divieti solo per stappare una birra negli orari in cui i locali goriziani avevano dovuto già chiudere.Sarebbe bastata – probabilmente – una maggiore responsabilità da parte di tutti (ed una diversa capacità di lettura storica da parte dei governi centrali) per non infliggere una nuova e così violenta umiliazione alla storia di due città o comunque, per ridurla al minimo tempo indispensabile: e questo soprattutto nell’anno in cui Nova Gorica si candida a Capitale della cultura europea per il 2025 presentando come valore aggiunto proprio la collaborazione con Gorizia,Così non è stato ma la piazza, fortunatamente, ha saputo offrire una luce di speranza nel tempo buio della pandemia e sono fiorite tante iniziative spontanee per testimoniare la capacità delle persone di guardare veramente “oltre”. Incontri culminati con il tavolo veramente transfrontaliero che ha visto il dialogo dei sindaci Rodolfo Ziberna e Klemen Miklavič.Fra pochi giorni, sperabilmente, verranno rimosse anche dalla piazza le reti e la circolazione riprenderà su tutti i valichi. Speriamo, però, che veramente – come ci ha ricordato papa Francesco nel Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali – questa storia possa divenire memoria: il confine aperto non è un dato scontato ma una conquista da vivere e difendere ogni giorno per poterla trasmettere alle generazioni future.

Siamo tutti sulla stessa barca

Poeta e gionalista, Jurij Paljk è il direttore del settimanale cattolico in lingua slovena “Novi Glas”. Camminiamo con lui dinanzi alla rete che divide piazza Transalpina.Che sensazioni provi a vedere questa divisione?Penso sia superfluo ripetere come il confine e tutti i confini sono lontani dal mio essere goriziano e vivere come tale. Ho speso tutta la mia vita a spiegare agli sloveni la realtà italiana, friulana e slovena, cioè la nostra realtà e nello stesso tempo cercando di aprire la finestra sul mondo sloveno anche agli amici italiani. Sono nato nella valle di Vipacco, Vipavska dolina, ed ho vissuto per dieci anni a Trieste ai tempi del confine che divideva la Jugoslavia dall’Italia,  posso quindi dire la mia, no?Quando la Slovenia è entrata nell’Unione Europea ho portato i miei tre figli sul confine: ancora si ricordano la pioggia ed il freddo che hanno preso freddo!Mi ricordo la festa alla Transalpina, le mie due figlie Ivana e Tina erano tra quei bambini delle scuole elementari che correvano durante la festa sul mosaico, mia moglie friulana Adriana teneva il piccolo Luka in braccio. Era venuta con me, accreditata come giornalista dalla parte slovena, gli organizzatori avevano dato il pass di giornalista anche a Luka…  i colleghi sloveni avevano capito. Luka si era addormentato nella tenda che fungeva da sala stampa per i giornalisti, di fronte alla stazione ferroviaria Transalpina in braccio alla mamma e si era svegliato solo a mezzanotte per il fracasso che facevamo: era gioia pura…Da sognatore quale sono, pensavo che non sarebbe mai più successo, che non avrei mai più visto il confine chiuso.Ed invece…Stamattina (lunedì 1° giugno) ho portato Luka in via San Gabriele a Gorizia, fino all’attuale blocco di controllo che sta lì perchè i confini sono chiusi: doveva andare a Lubiana dove studia fisica e gli ho detto che doveva passare il confine a piedi, non volevo avere problemi. Tina studia e lavora a Lubiana come ingegnere chimico mentre Ivana si è sposata a Litija vicino a Lubiana dove lavora come medico nel Klinični center, il policlinico centrale sloveno.Il confine che il virus Covid-19 ha portato con sé, nuovo, temporaneo, dite quello che volete, ma sempre confine, ci ha divisi di nuovo. Noi due, Adriana ed io, a casa a Terzo d’Aquileia con la mamma 95enne di lei, Melania, ed i figli tagliati dal confine in Slovenia. Luka non ce la faceva più, gli mancava la Laguna di Grado, il mare, la Bassa Friulana, la casa e così ha deciso nei giorni scorsi di tornare e seguire le lezioni universitarie via web da Terzo. Sul confine a Sant’Andrea due gentili poliziotti italiani gli avevano spiegato che doveva telefonare all’Azienda sanitaria e dire che si era messo in quarantena. Il primo giorno ha telefonato, sentiva solo varie musiche registrate, il secondo giorno ha chiamato il numero per Covid-19 e una signora gli ha chiesto se fosse tornato da Lubiana con l’aereo…. Ma scusa, gli aeroporti erano chiusi già da qualche mese…È quello che abbiamo pensato anche noi!Finalmente, insieme, abbiamo trovato al telefono una giovane e stanca dottoressa che ha spiegato gentilmente tutte le cose da fare. Luka è così rimasto 14 giorni in quarantena a casa a Terzo e alla fine è andato da solo in macchina fino a San Giorgio di Nogaro a fare il tampone. Tornato a casa ci ha raccontato che “sono super organizzati: ero seduto in machina, tipo drive-in”.  Dopo due giorni gli hanno detto che e’ negativo. Ora e’ tornato a Lubiana per gli esami all’università. Quando l’ho lasciato sul confine in Via San Gabriele, aveva la trolley e due borsoni, mi sono fermato a guardare la scena: il poliziotto sloveno gli ha chiesto dei documenti, si è informato su dove stesse andando…Ho rivisto me stesso sul confine 42 anni fa. Sì, è vero, era diverso il confine, ma era sempre confine. E devo dire sinceramente che non mi è piaciuta la scena. Mi sono di colpo sentito molto vulnerabile, ma molto.Io che credevo nella libertà senza condizioni…Non sono tra quelli che criticano tutto e tutti ad ogni costo, il presidente della Giunta regionale Massimiliano Fedriga: con il suo team ha fatto e sta facendo un buon lavoro, in Slovenia ha fatto bene e sta facendo bene Janez Janša che viene ingiustamente invece dipinto come un secondo Orban, proprio da quelli che sono scappati dalla pandemia del Covid-19 e hanno chiuso il confine con l’Italia un giorno prima di dimettersi dal governo, senza avvisare gli amici italiani… Hanno fatto bene i sindaci di Gorizia e Nova Gorica Rodolfo Ziberna e Klemen Miklavič.Non sono tra quelli che dopo l’entrata della Slovenia nella UE  parlavano del confine come “il confine che non c’e’ piu’ e ce l’abbiamo solo noi in testa”, no, il confine di Stato è sempre il confine di Stato, ma noi eravamo liberi.Ho fatto di tutto perchè il confine resti un ricordo, ma l’attuale pandemia ci ha mostrato come è vero ciò che sta dicendo il papa Francesco, che ci ha accompagnati durante tutta la quarantena con le sue messe mattutine, con i gesti simbolici, ma soprattutto con le parole del Vangelo: siamo tutti sulla stessa barca. Amo il mare, il mare per me è liberta, amo la mia terra che è il nostro Goriziano, amo la libertà di passare i confini di Stato come cittadino libero, come Goriziano, come cittadino europeo, come uomo libero.Per questo non ho criticato l’operato dei politici, governanti, ho cercato di essere cittadino, ho lavorato tutto il tempo in redazione al Novi glas in Piazza della Vittoria a Gorizia e da casa: non era un bel vedere il mondo intorno viaggiando verso Gorizia e ritornare la sera verso la Bassa in scenari apocalittici. Neanche i cani abbaiavano nel paese durante le prime due settimane, il silenzio fitto che potevi tagliare durante la notte, il vuoto opprimente delle strade… Ho apprezzato il lavoro, la responsabilita della nostra e mia Chiesa, locale e universale.Durante la quarantena ho portato dei documenti  del nostro amato parroco don Pino a Gorizia in curia, ho suonato e mi è venuto ad aprire il vescovo Carlo. Gli ho detto che mi sarebbe mancata la Pasqua, i riti, lui mi ha risposto deciso e con garbo che bisogna che tutti, ma proprio tutti pensiamo innanzitutto alla salute ricordandomi i suoi conoscenti, i suoi confratelli morti a Milano, Brescia, Bergamo…Anche per questo ho deciso di osservare tutte le regole che ci venivano imposte e consigliate, tutte.Certo, il nuovo confine mi ha fatto e mi fa male, molto male, ma per il bene comune bisogna fare sacrifici. Siamo tutti sulla stessa barca, no?Adesso stiamo andando verso la riapertura del confine…Spero che il confine chiuso rimanga presto solo un ricordo, come spero anche che tutti insieme sulla stessa barca riusciremo ad essere migliori, più rispettosi, più fratelli, per non alzare altri confini, soprattutto quelli invisibili, sociali, molto più  pericolosi.Ecco perchè non ho scritto una sola parola su coloro che sia di qua che di la’ del confine di Stato non hanno saputo tacere neanche durante la pandemia e hanno rispolverato solo vecchi rancori e pregiudizi. Il futuro è di quelli che sapranno essere migliori, il confine aperto sarà dei giovani che sapranno che noi goriziani, friulani, italiani, sloveni veniamo da lontano, che i nostri avi sono andati tutti a bere la Sorgente Viva ad Aquileia, la nostra Chiesa Madre, che predicava il Vangelo ed un mondo senza i confini, un mondo di fratelli, già molti, molti secoli fa.