Un tempio per la comunità

Tutte le filiali (Versa, Tapogliano, Fratta) ce l’avevano fatta, non mancava che la nuova costruzione della plebanale, con la splendida e solenne facciata; guardava alla strada che giungeva dal passo del Torre attraverso il borgo di Raccogliano. Al posto delle attuali finestre, erano lunette a dar luce alla navata. Il secolo XVII sta per spirare: il parroco Mario Gibelli de Gibellis dà inizio alla nuova chiesa e alla raffica di iscrizioni che caratterizzarono il suo plebanato.Il 1699 è ricordato in una piccola lapide, già nel presbiterio, ora sul lato sinistro esterno della chiesa. In testa, la dedicazione della chiesa a Dio e a onore della Vergine, poi un due parole: “indulto obtento”; aveva ottenuto un’autorizzazione, un permesso, in base al quale, gettò le fondamenta “di questa chiesa”. C’è poi l’abbreviazione P. S., che, a posteriori, è piuttosto sibillina.Nel nostro caso, potrebbe voler dire proprio, privato sumptu, pecunia sua: a proprie spese, ma anche il contrario, publico sumptu, col denaro pubblico, col denaro della comunità. Unica “sicurezza”, la data; si fa per dire; c’è la correzione di un 1700, in 1699 Già l’anno dopo (tenendo per buona la correzione) forse ci fu la prima frenata ai lavori: il 21 settembre, per San Matteo “Viense un’innondatione d’Aqua così improvisa ch’inondò tutta la contrada di questa canonica pieve con danni nottabbili”; il vicario curato di Romans, Giuseppe Marchiz, scrive che “mezado, stanza delle done”, cantina, cucina, forno e stalla della canonica andarono sotto di due braccia e due once (oltre un metro e trenta) e a lui toccò ricopiare alcuni anni del registro battesimi danneggiato dall’acqua. Tanta fu l’impressione che la nota vien ripetuta all’interno del registro, con la precisazione che ci fu la morte “d’Animali bovini, somarelli, pecore et animali piumatili”.Se gli atti notarili sono muti, di più, senza straparlare, dicono i registri dell’anagrafe, e soprattutto pare descrivano esplicitamente, chi progettò e guidò la costruzione della chiesa nuova. È il vicario Marchiz a spendere un paio di righe oltre quanto non faccia per registrare i battesimi. Quattro aprile 1702: è battezzato, col nome di Antonio, il figlio di Giacomo Valdemarin e di Girolama sua moglie “Padrini furono il spettabile signor Carlo Andrea Gianni nattivo di Lonnico sotto la Diocese dell’Illustrissimo e Reverendissimo Mons. Vescovo di Commo hora cimentario figliolo del signor cappomistro Pietro Gianni in questo primo edifizio della fabbrica di questa  veneranda Chiesa di santa Maria di questo loco”. Per sorte, nello stesso anno, proprio lui, Pietro Giani, sovrintendeva anche alla costruzione della nuova chiesa di San Zenone a Corona (fu autore – secondo il Cossar – anche della chiesa delle Orsoline a Gorizia e del campanile di San Rocco) . Non solo, si viene a sapere il nome del capomastro, ma si avverte movimento intorno alla chiesa: donazioni, soprattutto in occasione dell’ultimo viaggio; si notano trasferimenti, presenza di maestranze qualificate, trasferimenti dalla Carnia (es. i Poian), dove c’era gente a tu per tu con ferro, legno e  muratura.Le donazioni, in questo periodo di necessità, sono frequenti: 9 luglio 1708 muore don Giovanni Battista Zupet; benefattore della chiesa per 500 ducati, viene sepolto nel cimitero dei sacerdoti; Giacomo Calligaris, detto Zamberlan, lascia in perpetuo il frutto di 60 ducati. Santa, “figliola di mistro Francesco de Martin di Romans” lascia alla chiesa 10 ducati per una messa perpetua.Ogni tappa, nell’avanzare della costruzione, è segnata dalle date esposte al tempo per i posteri: in italiano, comprensibile a tutti – quantomeno più del latino – è quella sul portale d’ingresso: “Essendo Pievano l’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignore Mario Gibelli de Gibellis Protonotario Apostolico, Patrizio di Gorizia e Gradisca fu fabbricata l’anno 1710. Camerari Bernardo Pauluzza Valentino Valentinuz. Era orgoglioso il de Gibellis della “sua” chiesa; al culmine del timpano sulla facciata fece porre un monumento “muto”: il suo stemma, costituito da un basamento in pietra col simbolo di tre colli e sormontato stella in bronzo. Troviamo riscontro di questa data (1710), nel più volte citato libro dei battesimi: in una scritta, contornata da un tratteggio a penna: racconta in maniera chiara che il reverendo don Francesco Battauz “primas primitias sacrosancti sacrificij Missae DEO obtulit in hac Parrocchiali Veneranda Ecclesia DIVAE MARIAE VIRGINIS”. Non si tratta solo di una prima messa, ma della prima messa nella chiesa di Santa Maria in Romans, il 5 ottobre 1710, festa del Santo Rosario, cui il pievano de Gibellis è particolarmente devoto. Predicatore per l’occasione è don Giacomo Spangher, romanese. Non manca l’accenno al parroco, con parte dei suoi titoli. Va avanti ancora: 1712, una più sintetica iscrizione, ma eloquente, in latino, fa capire che anche il bellissimo armadio di sacrestia è costruito quando lui era parroco.Splendenti d’ oro, su fondo di marmo nero le iscrizioni in cornu Evangelii: era normale citare la casa regnante, ma forse qui si scioglie il dubbio sul permesso avuto di erigere la chiesa; probabilmente ottenuto da Giovanni Cristiano Eggemberg principe del Sacro Romano Impero (grazie alla principesca contea di Gradisca 1647-1717), duca di Krumlow, conte di Gradisca e con numerosi altri titoli, riassunti con gli abituali “etc. etc.”, gratificato con l’aggettivo celsus, già indicante “sopra il comune”, ma qui citato in superlativo assoluto. Vien ripetuto che dalle fondamenta il de Gibellis la fece erigere, e che poi lui fu elevato dall’imperatore Carlo VI a pievano di Gorizia e Salcano, abate della B.V.M. di Koppan Monostra. Siamo nel 1715; probabilmente a quest’epoca risalgono le statue, in stucco, di San Pietro e di San Paolo, nel tamburo della cupola. Stesso anno e altra lapide sul campanile della vicina Versa, dove il de Gibellis ripete, in maniera più esplicita, che il suo compito futuro sarebbe stato di governare il gregge di Gorizia e di Salcano. La chiesa è agibile, anzi, il 29 novembre 1716 viene consacrata. Ne parla un’epigrafe in cornu  Epistolae. Muta sul nome del parroco, che è già il barone Francesco Antonio de Taccò, patrizio gradiscano, cormonese di nascita, ex parroco di Idria.La prima domenica di avvento il tempio di Santa Maria, in Romans, viene consacrato (con i suoi cinque altari) da mons. Giorgio de Marotti vescovo di Pedena in Istria, diocesi povera, sovvenuta dalla Casa d’Austria e gratificata da cresime e consacrazioni in varie parti, per rimpolpare le entrate.La iscrizione aggiunge che l’anniversario della consacrazione, per mandato dello stesso consacrante, sarebbe stato celebrato ogni anno, con le filiali, la prima domenica di maggio. Anche qui c’è un “giallo”: il testo originario finiva citando genericamente le filiali. Si nota benissimo un’aggiunta che ha coperto la data e ha proseguito, specificando che le filiali erano quelle di Versa, Tapogliano e Fratta, spostando la data alla fine. È probabile, che il puntiglio delle filiali abbia reclamato almeno la visibilità: per prima, compare Versa per la nota ragione della primazìa plebanale (la sede della pieve era stata spostata a Romans nella II metà del ’400.Il 1716 aveva fatto registrare un atto importante nella vita della parrocchia: era venuto in visita pastorale (la funzione era questa anche se, di fatto, non era un vescovo ad effettuarla) l’arcidiacono di Gorizia Giuseppe Antonio del Mestri, personaggio non da poco. Appartiene a famiglia cormonese; barone di Schönberg; dottore in teologia, già pievano di Fiumicello e abate di Rosazzo, fu arcidiacono di Gorizia e Gradisca dal 1716 al 1720, poi vescovo coadiutore di Trieste e titolare di Amycla, in partibus infidelium. Il 23 e 24 settembre, il visitatore è a Romans e nelle filiali.La visita alle chiese non dà adito ad osservazioni di sorta. Che ci siano stati dei contrasti tra l’ex parroco de Gibellis e l’ufficio arcidiaconale si capisce dal fatto che, in tutto il resoconto della visita, non si trova una parola di ammirazione per una nuova chiesa che non ha eguali nella Contea. Sembra impossibile ignorarla; difatti…ignorata non è, ma per dei rilievi per nulla lusinghieri, rispetto ai quali ci manca l’altra campana, quella del de Gibellis. Audi et alteram partem!In questo momento, parroco di Romans è il patrizio gradiscano Francesco Antonio de Taccò. Energico, buon amministratore, presenta la situazione in tutta la sua realtà, sottolineando la trascuratezza dei tempi. Illustra il quadro spirituale della comunità in termini molto positivi, segno – ma egli non lo rileva – che la direzione pastorale precedente era stata buona. Quando si passa alla amministrazione dei beni della Chiesa, cambia il tono e l’attenzione cresce: si tratta di un momento cruciale, per tutta una serie di mancanze, che risalivano ancora alla II metà del ’600 , al tempo del pievano Ludovico Suardo (forse per debiti derivanti dalla fabbrica del campanile)..Inizia una serie di riscontri negativi, che il parroco fa risalire al suo predecessore (il de Gibellis): “l’entrate dell’anno passato sono state levate dal mio predecessore per preteso pagamento per debiti incontrati da essa Veneranda Chiesa”.Da molti anni non si fanno i conti con i coloni; ci sono dei camerari debitori per la loro amministrazione. Il parroco si è dato da fare per il recupero: alcuni hanno promesso delle botti di vino a sconto, altri sono stati spinti a dare parte del fruttoOltre ad altre manchevolezze amministrative, il parroco carica le tinte nel descrivere il predecessore, rilevando la sua tendenza ad una sorta di culto della personalità; lo spiattella senza tentennamenti: “…nonostante che il suo predecessore non avesse somministrata cosa alcuna nell’erettione e fabrica della Veneranda Chiesa, s’ habbi fatto lecito di far porre la sua arma [il suo stemma n.d.A.] sopra il frontespiccio dell’istessa, instando che venghi ordinato di doversi allevare”, ma lo stemma, davvero monumentale, è ancor oggi al suo posto. Al punto ottavo di queste dettagliate e durissime rimostranze, aggiunge che “D’avvantaggio del Predecessore è stato eretto l’Altare del Santissimo Rosario e sopra l’istesso ha fatto affigger la sua arma, e medesimamente s’ha fatto ritraher nella palla, in atto non già d’adoratione, ma di sguardo verso la chiesa pocco decente”, perciò chiede che il ritratto venga modificato e posto “in atto d’adoratione”, ma solo se il promotore corrisponderà una dote per la cappella o altrimenti “Levata la figura con l’arma e la sottoscrittione”. Anche qui lo stemma rimane al suo posto; il ritratto, malamente ridipinto, è stato sostituito con la figura di San Carlo Borromeo. Con tutto rispetto per il Santo, che non ha certo guadagnato in questo quadro né per forma, né per sostanza, sarebbe stato meglio restituire ai Romanesi il ritratto di chi ha certamente avuto dei meriti nella costruzione della chiesa, altrimenti, lapidi, stemmi, ed iscrizioni non sarebbero rimaste, perché il de Taccò, nella sua furia iconoclasta, non si ferma e chiede al visitatore che la “Pietra esistente sopra la sacristia sia fatta levare e si convertisca in memoria della consacrazione da farsi della veneranda chiesa”, però non si oppone “che venghi posta in altro sito previa la riforma dell’inscrittione”; in pratica, vuol togliere al suo predecessore – dalla pietra, s’intende – i titoli che aveva aggiunto dopo la sua permanenza a Romans. Voleva fosse levata la iscrizione sull’armadio della sacrestia “non havendo somministrato cosa alcuna in utile dell’armaro”.Esplicita è la richiesta del visitatore per la questione del ritratto, mentre, per il resto, si cercò il compromesso: la bella lapide nera, con lettere dorate, da sopra la sacrestia fu messa di fronte, in cornu Evangelii, ma i titoli non vennero levati; al suo posto fu incastonata quella dianzi descritta, che ricorda la consacrazione.La pala del Santo Rosario (1714 come l’altare) sarebbe stata dipinta dal pittore Goriziano Antonio Paroli (come quello di San Simone che riecheggia la pala di San Bonifacio a Fratta al Sant da glaz, 5 giugno! Ma la mano del Paroli nel quadro del Rosario proprio non si vede).Qui troviamo l’ iconografia consueta: la Madonna che dona la corona del rosario a San Domenico. Il Bambino che incorona di rose il capo di Santa Caterina da Siena, rappresentata con le stigmate. Anche queste (la Santa le aveva) erano state abolite, dopo una campagna contraria dei francescani, per la crudezza della rappresentazione, da Sisto IV (1475). Innocenzo VIII (1680) addolciva queste disposizioni, fino alla decisione di Urbano VIII sulle stigmate luminose e non cruente. Troviamo il giglio, simbolo di purezza sia per la Santa che per San Domenico e, con la fiaccola in bocca, il cane (sognato dalla madre di San Domenico quando lo portava in grembo). Tutti sulle nubi, quindi in cielo, con la Madonna e il Bambino. Sotto ancora c’è un S. Carlo Borromeo, che sembra proprio incollato sulla tela. Se si va vicino, si vede ancora un alone ovale. È a sé stante, non dialoga con nessuno. Negli anni Ottanta segnalai il racconto archivistico a don Adelchi e, nel restauro del quadro, ad opera di Laura Zanella e Paola Zotti, saltò fuori il de Gibellis, imparruccato, impicottito, sguardo verso la navata come se il caso del quadro non fosse suo, ma la chiesa sì. La Soprintendenza propese per coprirlo di nuovo. Comunque, il quadro è realizzato (ritratto a parte), per essere sede e testimone di una devozione rafforzata dalla corona dei 15 misteri dipinti (non ci sono, ovviamente, quelli della luce, inseriti da Gv. Paolo II nel 2002, lettera Rosarium Mariae Virginis). Ecco la storia, in sintesi, della chiesa attuale, dell’altare e del quadro, che ora sappiamo benissimo appartenere ancora di più ai Romanesi …perché pagato da loro, anche se al de Gibellis si deve l’iniziativa di una costruzione straordinaria; tradotto in friulano: fat cui sols dai purs e cul consei dai siors!

L’importante anniversario celebrato da mons.Redaelli

Le campane hanno suonato lungamente a festa il 29 novembre a Romans d’Isonzo, per celebrare il momento più importante delle celebrazioni proposte per i 300 anni della chiesa parrocchiale di Santa Maria Annunziata, consacrata il 29 novembre 1716. Campane che hanno suonato fin dal primo pomeriggio, per richiamare i fedeli alla messa solenne delle 19, accompagnata dal coro parrocchiale, che il vescovo monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli ha concelebrato assieme a monsignor Dino De Antoni, arcivescovo emerito di Gorizia, affiancati da una ventina di sacerdoti, tra i quali anche l’ex parroco, monsignor Adelchi Cabass, salutato con un lungo applauso.Il rito eucaristico è stato concelebrato nella chiesa gremita di fedeli e riconsegnata per l’occasione al culto, dopo circa un mese di lavori, che le hanno conferito un maggior splendore, regalando pure qualche sorpresa storica al paese, quale l’effige settecentesca che si celava dietro le pitture murali precedenti e venuta improvvisamente alla luce con la ritinteggiatura delle pareti. Alla cerimonia religiosa erano pure presente il sindaco Davide Furlan con la sua giunta, tre ex primi cittadini locali ed altre autorità, così come non sono mancati i rappresentanti della locale sezione dell’Anpi, del Gruppo alpini “Aldo Barnaba”, dei donatori di sangue e e del nucleo dell’Arma Aeronautica.Il rito religioso ha concluso una serie di iniziative che la Parrocchia, attraverso un apposito comitato e la collaborazione del Comune e di varie associazioni, ha proposto nell’arco di un mese per celebrare l’importante ricorrenza. Una ricorrenza su cui si è soffermato lo stesso Redaelli, sottolineando che i 300 anni della chiesa di Romans sono il segno di una comunità che in questi tre secoli, pur tra tante difficoltà derivanti dalla storia dell’uomo, ha vissuto la parola di Dio applicando i valori evangelici, senza i quali la chiesa sarebbe stata e sarebbe tuttora un contenitore vuoto. Sui lavori si è infine soffermato il parroco don Flavio Zanetti, per poi ringraziare i religiosi che hanno svolto la loro opera pastorale e Romans, quanti si sono adoperati sostenere i lavori eseguiti ultimamente in chiesa e quanti hanno si sono messi a disposizione per dar vita alle iniziative proposte per celebrare i 300 anni della chiesa.Edo Calligaris