Insieme affinché la violenza non rimanga invisibile

Succede, purtroppo sempre più spesso, che fatti di cronaca facciano aprire dibattiti e discussioni sulla violenza contro le donne. Sono fiammate che poi si spengono in attesa di un nuovo tragico fatto di cronaca. In genere c’è un grande, anzi grandissimo silenzio su questa violenza e sulla cultura che la genera, la favorisce e spesso ne offre versioni giustificanti anche davanti ad un assassinio. Se ne parla molto proprio in queste occasioni e spesso in modi poco corretti. Lo stesso linguaggio con cui ne parlano o scrivono gli organi di informazione spesso sono già testimonianza di pregiudizi nei confronti della donna e di ‘indulgenza’ nei confronti dell’uomo maltrattante, anche assassino.

Carmelina Calivà, assistente sociale specializzata, è presidente dell’Associazione “Da donna a Donna” che ha sede a Ronchi dei Legionari e gestisce un Centro Antiviolenza riconosciuto dalla Regione e dallo Stato.  

 

Parliamo della violenza nascosta, di quella che emerge con fatica al di fuori delle mura domestiche. Non possono esserci statistiche su quello che succede in casa, ma autorevoli Commissioni dicono che è più diffusa di quello che pare. Le risulta dalla sua esperienza?

La violenza sulle donne da parte di un partner, o violenza domestica, è rimasta invisibile fino agli anni ’70 e considerata come un fatto privato, in cui non bisognava interferire. Nell’Assemblea Generale del Consiglio d’Europa del 3 Aprile 2000 si cita: “La violenza domestica rimane la meno visibile nonostante si tratti di una delle forme più comuni di violenza contro le donne; secondo le stime in Europa ogni anno essa uccide o ferisce gravemente più donne di quanto facciano il cancro o gli incidenti stradali”.

Oggi sappiamo che nei paesi industrializzati tra il 20 e il 30% delle donne ha subito violenze fisiche o sessuali da un partner o ex partner nel corso della vita. La Polizia di Stato registra in media ogni 15 minuti una vittima di violenza di genere femminile, reato commesso nella maggior parte dei casi in ambito familiare (maltrattamenti, stalking, stupri, fino alla forma più estrema di violenza, il femminicidio). E’ inoltre un elemento che caratterizza l’esperienza migratoria della maggior parte di donne e ragazze prima, dopo e durante il percorso migratorio. Spesso lasciano il loro paese di origine per sfuggire a diverse forme di violenza, tra cui matrimoni precoci e forzati, abusi perpetrati dalle famiglie o dai partner, violenze sessuali e mutilazioni genitali femminili e, altrettanto spesso, sono vittime della cultura patriarcale delle famiglie d’origine e queste pratiche vengono perpetuate anche nel nostro paese, nonostante siano reati. 

La presenza sul territorio di Centri Antiviolenza e di servizi pubblici sensibili e preparati sicuramente fa  emergere le situazioni a rischio. Nel 2020, complice anche la pandemia, si è registrato, per esempio, un incremento di telefonate al 1522, il numero verde del Dipartimento per le Pari opportunità attivato per le donne vittime di violenza e stalking. Il picco è stato raggiunto nei mesi del lockdown, quando le donne vittime si sono ritrovate, a causa dell’emergenza sanitaria, costrette per un lungo periodo in casa con gli uomini maltrattanti. Lo raccontano i numeri: dal primo marzo a metà aprile c’è stato un incremento del 73% rispetto allo stesso periodo nel 2019. Anche una ricerca dell’Università di Trieste condotta dalla dott.ssa Romito che ha coinvolto i Centri Antiviolenza regionali della rete nazionale “Dire Donne in rete contro la violenza”, ha confermato che la violenza è aumentata per le donne costrette a vivere a stretto contatto con il maltrattante causa lockdown ed è invece diminuita per le donne separate.

Quali forme di violenza sulle donne emergono dall’ascolto di chi si rivolge ai Centri Antiviolenza?

Nell’esperienza del Centro Antiviolenza credo si possa dire che la violenza maggiormente rappresentata è quella psicologica (sempre presente anche in contesti di atti persecutori, violenza fisica, economica e sessuale tutti rappresentati nella casistica); si manifesta con azioni di violenza indiretta, critiche continue, umiliazioni, insulti, isolamento sociale (p.es.: divieto di aver contatti con i familiari e gli amici, continui controlli, minacce di far del male ai parenti). Le critiche a sfondo sessuale possono generare un senso di particolare vergogna che diventa un ulteriore ostacolo nel cercare aiuto. La violenza psicologica include inoltre minacce o atti intimidatori quali lo sbattere le porte, lanciare o rompere gli oggetti, maltrattare animali domestici, ecc. Tali comportamenti hanno lo scopo di intimidire, minacciare mostrando la propria forza e capacità di fare del male. La minaccia di suicidio costituisce una violenza di estrema gravità perché porta la partner a sentirsi responsabile delle azioni dell’altro e a dover restare immobile per il timore delle conseguenze di qualsiasi sua scelta. Una situazione che, se prolungata, può portare al crollo dell’autostima, senso di vergogna, stati di ansia, paura e depressione Le donne vittime di violenze anche “solo” psicologiche sono significativamente più depresse, consumano più psicofarmaci e considerano più spesso la loro salute come “cattiva”.

Quali difficoltà affronta una donna nel prendere coscienza e denunciare la violenza subita?

Subire violenza è un’esperienza traumatica che produce effetti diversi a seconda del tipo di violenza subita e della persona che ne è vittima. Ogni donna è diversa, ciascuna ha una propria soglia di tolleranza alla violenza e si trova ad agire in contesti differenti Penso però che la difficoltà maggiore sia nella paura di non essere creduta: il percorso può essere lungo e difficile e spesso dipende dal tipo di risposta che una donna riceve nel momento in cui chiede aiuto all’esterno, dal sostegno o mancato sostegno che trova nei familiari non abusanti, nelle amiche, nei professionisti o nel confessore. Denunciare una violenza subita è un atto che richiede tantissimo coraggio; la scelta è difficile perché spesso la donna che ha subito violenza si sente sola, priva di appoggio, di ascolto e di risorse e, spesso. L’unico riferimento affettivo è proprio il maltrattante.

Quale supporto possono dare i Centri Antiviolenza?

Il Centro Antiviolenza è un luogo di donne che accolgono donne che subiscono violenza da parte degli uomini. E’ un luogo di accoglienza in cui la relazione tra donne è la base della metodologia utilizzata per fare emergere e riconoscere la dimensione della violenza. La metodologia prevede che ogni azione (denuncia, separazione, attivazione dei servizi, ecc.) venga intrapresa solo con il consenso della donna e che si lavori sempre per il suo vantaggio, attraverso una modalità che consenta alla donna di parlare di sé, offrendole la possibilità di credere in se stessa, secondo i presupposti della protezione, della riservatezza e del non giudizio da parte delle operatrici. Il Centro lavora, sin dal ’99, in rete con i servizi territoriali non sostituendosi e non sovrapponendosi ad essi. E’ inoltre un “laboratorio sociale” in cui si sperimentano relazioni virtuose e azioni di prevenzione e formazione attraverso interventi locali e territoriali mirati. I servizi offerti vanno dall’accoglienza telefonica (in genere il primo contatto), ai colloqui di accoglienza (a cadenza periodica e di durata variabile, in base alle esigenze, a carattere relazionale o psico-sociale, non terapeutico) finalizzati all’analisi della situazione e dei bisogni.  Alla donna non vengono offerte soluzioni precostituite, ma un sostegno specifico e informazioni adeguate, affinché possa trovare la soluzione adatta a sé e alla propria situazione. C’è la possibilità di consulenze legali di primo livello con l’avvocata che collabora da anni con il Centro e l’eventuale accompagnamento nella ricerca di soluzioni abitative, aiuto nella ricerca del lavoro e nella formazione, affiancamento nella fruizione dei servizi, nelle procedure amministrative e burocratiche e nel percorso giudiziario. Offriamo inoltre l’ospitalità in emergenza e, qualora venga rilevato un alto rischio per la donna, l’accoglienza per un periodo definito in un luogo riservato e protetto (casa rifugio a indirizzo segreto). Quando viene meno il bisogno di protezione e segretezza alla donna può essere offerto un ulteriore periodo nella c.d. “Casa di Transizione”.

La narrazione tende a far vedere questa violenza frutto di un contesto di povertà materiale e di degrado, di poca istruzione, di dipendenze. E’ così o emerge anche in altri ambienti?

Per la nostra esperienza, corroborata dai dati nazionali e internazionali, la violenza è trasversale alle classi sociali ed è compiuta da uomini di diversa scolarità, professione e religione che nella maggior parte dei casi si comportano normalmente sul lavoro e nella vita sociale. E’ possibile però che donne più istruite e con un livello economico medio alto o alto evitino di rivolgersi ai centri o ai servizi pubblici attivando risorse proprie. Tutti i dati confermano che le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner e, dai racconti delle donne, spesso i primi episodi  avvengono durante la gravidanza e continuano o diventano più gravi quando la donna decide di lasciare il partner (parallelamente, dopo la separazione o il divorzio, aumenta anche il rischio di maltrattamento e violenza sessuale a danno dei figli).  Solo in 14 dei casi circa vengono dichiarati problemi di alcol o tossicodipendenza.

Che conseguenze ha la violenza domestica sui bambini che, quando non ne sono coinvolti,  vi assistono?

La violenza sulla madre è fattore predittivo di maltrattamento diretto sui figli. La c.d. “violenza assistita” è considerata un trauma al pari della violenza diretta e le conseguenze sono strettamente connesse all’età dell’insorgenza, alla qualità e alla frequenza degli eventi, al coinvolgimento emotivo e fisico, alla presenza o alla mancanza di fattori protettivi. Gli effetti che si possono rilevare, generalmente si ripercuotono sulla sfera psicologica ed emotiva, ma anche nei comportamenti e nelle relazioni. Più bassa è l’età dei bambini e più gravi e frequenti gli episodi di violenza, maggiori saranno le conseguenze negative sullo sviluppo psicofisico e per la strutturazione della personalità. I bambini testimoni di violenza domestica possono riportare danni fisici perché, spesso, nel tentativo di difendere la madre aumentano la probabilità di essere colpiti da pugni, calci, oggetti lanciati, ecc.. Questi bambini risultano spesso invisibili agli occhi dei propri genitori e possono sviluppare la percezione che il loro dolore non venga considerato, vivendo esperienze di svalutazione e di perdita di fiducia nel fatto che gli adulti si prenderanno cura di loro. Si sentono bambini cattivi, colpevoli e impotenti: sperimentano un senso di responsabilità che si imputano rispetto agli episodi di violenza, contro la quale si sentono impotenti rispetto alla possibilità di poter modificare il contesto di vita, e al contempo si possono sentire privilegiati quando non sono direttamente vittimizzati. Possono sviluppare inoltre comportamenti adultizzati, di accudimento e protezione verso la madre maltrattata; avviene così un rovesciamento dei ruoli, in cui è il figlio a prendersi cura dell’adulta. Inoltre i bambini possono assumere comportamenti compiacenti e prendere le parti dell’uno e dell’altro, imparando a servirsi di bugie o a schierarsi in base alle circostanze. In molti casi il genitore maltrattante coinvolge i bambini nel controllo o negli agiti vendicativi, soprattutto in seguito alle separazioni, nei confronti della donna.

L’esposizione alla violenza domestica incide sulla loro salute e può essere inoltre alla base di una pluralità di disturbi o di comportamenti inadeguati e a rischio (disturbi dell’attaccamento, depressione, bassa autostima, ansia, aggressività, scarsa capacità di gestione della rabbia, stati di agitazione ed irrequietezza, minori competenze sociali e relazionali, esigue abilità motorie, alterazioni del ritmo sonno/veglia con sonno disturbato da incubi o enuresi notturna, propensione alla somatizzazione, capacità empatiche ridotte, comportamenti regressivi, autolesionisti, disturbi alimentari, bullismo, uso di alcol e sostanze, scarso rendimento scolastico a volte associato a problemi di apprendimento). E’ fondamentale in queste situazioni la capacità della lettura degli indicatori di rischio da parte di educatori, insegnanti e pediatri.

Sia i maschi che le femmine apprendono modelli relazionali in cui l’espressione dell’affettività è strettamente connessa alla sopraffazione dell’uno sull’altro e dove l’uso dell’aggressività e della violenza è ammesso e giustificato. Crescendo in adolescenza possiamo i ragazzi che hanno imparato che nell’affettività la violenza è segno distintivo del modello di uomo che hanno interiorizzato rischiano di mettere in atto azioni maltrattanti nei confronti della ragazza, senza assumersene le responsabilità. Al contempo ragazze che hanno assistito a violenze tra i propri genitori, possono accettare una relazione opprimente e/o abusiva, considerandola nella norma. Così si porta avanti nelle generazioni, pericolosamente, l’idea che la violenza sulle donne è un modo accettabile e normale di relazionarsi all’interno dei rapporti affettivi, giustificando una diseguaglianza di genere che è tutt’oggi radicata nella società.

La violenza di cui stiamo parlando si manifesta in un contesto che dovrebbe essere frutto di una scelta di amore e rispetto reciproco. Che cosa non funziona già prima di decidere una convivenza?

La famiglia e le relazioni tra i generi non rappresentano solo un sistema in cui agiscono vincoli affettivi positivi, quali il rispetto e l’amore e la condivisione, ma anche un sistema di sopraffazione e prevaricazione. Negare l’esistenza di una cultura patriarcale che permea ogni ambito della nostra sfera personale e collettiva si rivela tanto falso quanto controproducente: sessismo e maschilismo si manifestano continuamente nella nostra quotidianità in modo più o meno esplicito e negare questa evidenza non fa che alimentarne il meccanismo discriminatorio.  Siamo ancora lontani da una reale parità politica, sociale ed economica del genere femminile.

Pensare lucidamente in una situazione di violenza domestica non è facile, ma è necessario per costruire scelte e pensare a nuovi scenari di libertà dalla violenza.  Essere consapevole dei segnali predittivi della violenza può significare salvarsi una vita. Per una donna i campanelli d’allarme in una relazione possono essere le risposte positive a queste semplici domande:

Vuole sempre sapere cosa stai facendo, dove ti trovi e con chi stai?

Controlla il tuo telefono o accede al tuo account di facebook, twitter?

Ti impedisce di lavorare e/o studiare, o di coltivare qualche hobby?

Controlla se e come spendi i tuoi soldi, o pretende di gestirli?

Ti insulta, critica sempre i tuoi comportamenti o scredita tutto ciò che fai?

E’ violento fisicamente? Ti ha mai colpito, preso a schiaffi, calci e/o pugni?

Ti impedisce di mantenere i rapporti con i tuoi amici, amiche, colleghi/e di lavoro e/o familiari?

Minaccia di fare del male a te e/o alle persone a te care?

 

Si ha l’impressione che di fronte a questi problemi la società in genere sia ipocrita e omertosa. Si nasconde piuttosto che affrontare il problema…. è un’impressione corretta?

Negli ultimi anni atroci e talvolta quotidiani fatti di cronaca sono stati spesso spettacolarizzati: siamo come “anestetizzati” di fronte a degli orrori che non dovrebbero lasciarci indifferenti. Siamo coraggiosi dietro una tastiera per criticare, dare giudizi e segnalare tutto, e diventiamo omertosi nella vita reale. Siccome spesso le violenze avvengono fra le mura domestiche o in mezzo alla strada, in genere i vicini e talvolta tutto il quartiere è al corrente degli abusi. E’ ancora raro però che qualcuno si esponga e questo comportamento può essere definito omertoso e complice. Considerando il silenzio un atteggiamento neutrale ci sbagliamo. Il silenzio è complice e può portare a tragedie atroci.

 

Infine, perché non sembri che parliamo di situazioni ‘lontane’, ci sono dei dati per capire quanto  emerge la violenza di genere nei confronti delle donne nei nostri paesi, nel Monfalconese?   

Il Centro Antiviolenza è attivo dal 1997 sul versante della protezione e del sostegno alle vittime di violenza. Nel 2020 si sono rivolte al Centro Antiviolenza 150 donne per iniziare un percorso di uscita dalla violenza con percorsi di empowerment economico finanziario, lavorativo e di autonomia abitativa; rispetto all’anno precedente ed in relazione al lockdown c’è stata una contrazione del 25%.

14 donne e 9 minor sono entrate nelle strutture di emergenza dato in aumento rispetto all’anno precedente; 11 donne e 11 minori sono state ospitate nelle case rifugio e  4 donne e 5 minori nella Casa di Transizione.