Gabriela, una giovane goriziana ad Auschwitz

Gabriela aveva 16 anni e mezzo il 14 novembre 1943. Quel giorno, quando uscì di casa per accompagnare il fratello minore dal dottore, non sapeva ancora che la sua vita sarebbe stata segnata per sempre. Oggi Gabriela – un’energica e simpatica signora – ha deciso di aprire per noi il suo cuore e di svelarci i suoi ricordi, che finora non aveva ancora raccontato alla carta stampata.La storia di Gabriela è quella di una ragazza deportata, una giovane alla quale è stata strappata una parte della propria vita. Una storia che ha coinvolto milioni di persone ma che oggi, purtroppo, sono sempre meno a poterla raccontare con la propria voce. Diamo spazio a Gabriela per non dimenticare, mai.Quel giorno Gabriela si trovava in piazza Vittoria per caso, per accompagnare il fratello dal medico ma, proprio mentre passavano di là, era in atto il rastrellamento della città da parte dei nazisti. “Hanno preso tutti – ci racconta -, non guardavano se eri ebreo, italiano, a loro interessava solo prenderci perhé eravamo “nemici politici”. Ci hanno presi a calci, pugni, ci hanno portati via prendendoci per i capelli. Mio fratello invece è stato rispedito a casa. Ci hanno caricato su non so quanti camion e ci hanno portati alla prigione di via Barzellini, dove ho passato 13 giorni. Non ne avevo mai vista una: non sapete quanti pianti ho fatto là dentro! Avevo tantissima paura. Tutti però hanno pianto: nella mia cella eravamo 16 persone, provenienti non solo da Gorizia ma anche dai paesi vicini e da Trieste. Della mia famiglia io sono stata l’unica a essere fatta prigioniera”.Il dolore era ancora più accentuato per la ragazzina per il fatto di non avere una motivazione del perché si trovasse lì con tutte quelle persone. “Non ci hanno dato spiegazioni sul perché fossimo stati imprigionati e non capivamo nulla, perché loro parlavano solo in tedesco. Se gli si chiedeva qualcosa, si prendevano tante botte: non si doveva mai aprir bocca verso di loro”.Dopo 13 giorni di carcere, una mattina Gabriela e gli altri prigionieri vengono caricati su un treno merci, dove in alcuni vagoni c’erano già persone da Trieste e da Udine. Da quel momento inizia il lungo Calvario della giovane Gabriela. “Abbiamo viaggiato per sei giorni e non sapevamo verso cosa eravamo diretti – lo avremmo scoperto solo al nostro arrivo: Auschwitz -; credevamo ci avrebbero portati a lavorare… mai avremmo immaginato cosa ci sarebbe toccato.Una volta giunti a Klagenfurt abbiamo fatto una sosta, dove ci hanno dato finalmente un tozzo di pane e basta; è stata l’unica cosa che abbiamo mangiato in tutto il viaggio fino ad Auschwitz. Una volta arrivati e scesi dal treno, già solo vedere il portone d’ingresso ci diede una bruttissima impressione. Inoltre, dopo tanti giorni senza mangiare, avevamo molta fame e sentivamo odore di arrosto…solo in seguito comprendemmo che non era odore di cibo quello…”

La permanenza nel lagerDa lì, Gabriela e i suoi compagni di viaggio vengono portati in un grandissimo camerone, uomini e donne insieme, vengono completamente svestiti e rasati: “ci prepararono per portarci a fare la doccia, dicevano”. In quell’occasione Gabriela è “graziata” per la prima volta: i nazisti al campo uccidevano con il gas solo un certo numero prestabilito di persone ogni giorno. Quando sarebbe toccato al suo gruppo, il numero per quel giorno era stato già raggiunto e così Gabriela si salva. “Allora ci portarono di nuovo fuori e ci tatuarono il numero sul braccio: da quel momento non avevamo più un nome, ma eravamo soltanto un numero, con il quale ci identificavano e chiamavano. Avevamo perso anche la nostra identità”.Gabriela, nel corso della sua prigionia, verrà portata e preparata per la “doccia” in una seconda occasione ma, anche quella volta, il destino è dalla sua parte e la ragazza non finisce nel conteggio necessario alla giornata. “Questo fatto avvenne dopo un po’ di tempo che ci trovavamo al campo ed eravamo ormai venuti a sapere di che tipo di “docce” si trattasse e perché ci fosse sempre quell’odore di cose cotte… avevamo molta paura, credevamo di non tornare più. Invece, per fortuna, di nuovo il numero era già stato raggiunto e ci hanno ricondotto alle baracche. Tra tante persone, mi ritengo davvero fortunata”.La vita in prigionia è carica di lavori faticosi e dolore: “ogni giorno andavamo ore ed ore a lavorare nei campi, o a caricare e scaricare i vagoni dei treni; il mangiare era quasi nullo: qualche buccia di patata e di carota. Oggi non riesco più a mangiare questi due ortaggi… La sveglia era alle 4 del mattino, le kapò ci svegliavano urlando e ci contavano, perché volevano controllare che non mancasse nemmeno una delle prigioniere dalle baracche. Ma il campo era di 42 kilometri quadrati, dove saremmo potute scappare? Alcune volte ci eravamo accordate per tentare una fuga, ma non l’abbiamo mai attuata.Le condizioni in cui dovevamo sopravvivere erano veramente dure, difficili: senza biancheria, con le scarpe spaiate, zoccoli duri che spaccavano la pianta dei piedi ma dovevamo camminare per chilometri ugualmente, e quella sorta di pigiamone duro a righe con il quale tentavamo di coprirci, anche dal freddo. La cosa che fa tanto male ancora oggi, è che quella condizione ci aveva fatto diventare cattive: ci rubavamo le cose tra di noi, anche tra amiche, ci portavamo via i vestiti, le scarpe… ci avevano fatte diventare come loro”.Gabriela, come molti altri prigionieri, negli ultimi periodi del conflitto viene trasferita in un altro campo di concentramento, a Ravensbrück: “abbiamo camminato per 17 giorni, perché i tedeschi erano ormai stretti da un lato dai russi e dall’altro dagli americani. Siamo arrivati in questo lager e lì siamo rimasti credo per 10 o 15 giorni – purtroppo in quei momenti il senso del tempo si perde -. Siamo poi stati fatti rientrare ad Auschwitz e, da quel momento, io dico sempre che c’è stata una “caduta di ossa”: ogni giorno la cenere cadeva copiosa dai camini dei forni, i nazisti bruciavano, bruciavano, bruciavano; volevano nascondere tutto, farci sparire prima che arrivassero americani e russi. Ho visto morire tante persone durante la prigionia, uccise, impiccate… sono cose difficili anche da raccontare”.Nel lungo periodo di prigionia, Gabriela racconta che “non ci siamo mai lavati e non abbiamo mai bevuto acqua, perché usciva rossa dai tubi; chi ci ha provato poi è stato male. Anche al bagno non si poteva andare se non quando volevano loro, e se non si facevano i bisogni quando volevano loro, si prendevano botte. Si prendevano botte per ogni cosa, anche mentre facevamo la fila per il pasto. Quante ne ho prese…”.Tre volte Gabriela si ammala durante la sua permanenza al campo. “Su consiglio di alcune donne più grandi, ho sempre nascosto il fatto di essere ammalata, altrimenti mi avrebbero portata alle “docce”. Ho avuto due volte una sorta di influenza, che ho tenuto per me. Mi ero confidata solo con una donna che aveva un bambino piccolo, per il quale riusciva a barattare un po’ di latte; le davo il mio pane e lei barattava un po’ di latte anche per me e con quello sono riuscita a curarmi. Una volta poi avevo forti dolori all’intestino e, per non sporcare il letto, di notte uscivo dalla baracca e mi liberavo quando il riflettore – che passava tutta la notte ad illuminare il campo – era girato dalla parte contraria. Il giorno dopo le kapò hanno chiesto chi fosse la responsabile di quegli escrementi: tutte sono rimasti zitte, me compresa; le kapò hanno preso una ragazza ebrea per i capelli e con il suo viso hanno pulito lo sporco. Mi dispiace ancora oggi che si sia presa la colpa al posto mio”.

La lunga strada verso casaFinalmente Auschwitz viene liberata, Gabriela perde di vista le sue compagne di baracca, ma trova nuovi compagni e compagne: “in tutto ci ho messo un anno per ritornare a casa. Nei primi giorni i russi avevano organizzato un grande campo di raccolta e ci dissero che chi voleva poteva rimanere lì, altrimenti, a 80 kilometri, si trovavano gli americani.Con altre sei ragazze – dei dintorni goriziani e dell’Istria – abbiamo iniziato il nostro percorso di rientro; non sapevamo bene dove andare e, lungo il cammino, abbiamo trovato una quindicina di prigionieri – italiani anche loro – e ci siamo unite a loro. Erano un cuoco, uno stalliere, un barbiere, tutti della zona, i più lontani erano un veneziano e un romano. Avevano recuperato anche un carro e due cavalli, che abbiamo utilizzato durante tutto il percorso.Quando trovavamo delle caserme occupate dai russi, entravamo a chiedere provviste e spesso venivo scelta proprio io per questo! Chiedevamo farina, fagioli, orzo, patate, ogni tanto ci davano un po’ di carne, e con questi cibi siamo riusciti a sopravvivere per tutto il viaggio, fino a quando siamo arrivati dagli americani e lì siamo stati smistati nei campi organizzati per i rientri dei reduci: c’era un campo per i francesi, uno per i polacchi, uno per gli italiani e via dicendo.Noi siamo stati fatti rimpatriare per ultimi, perché molti ponti erano stati abbattuti e bisognava appena ricostruirli. Il convoglio ci ha portati fino a Verona e da lì siamo rimaste circa 5 persone dei dintorni goriziani, ma di Gorizia città c’ero solo io. Siamo andati dritti, dritti, dritti, man mano che giungevamo nelle rispettive località di casa, il gruppo si rimpiccioliva. Ho avuto compagnia fino a Cormòns, poi sono rimasta sola.Ho proseguito la mia strada, finché ad un certo punto ho incontrato un camion di soldati statunitensi: mi hanno chiesto dove fossi diretta, mi hanno fatta salire e mi hanno accompagnata fino alle porte della città. Mentre percorrevo l’ultimo tratto di strada verso casa, un mio vicino – che passava di lì per caso – mi ha riconosciuta e ha fatto una corsa velocissimo per avvisare i miei genitori che, all’inizio, pensavano stesse scherzando o si fosse sbagliato: ormai pensavano che non mi avrebbero rivista mai più. Mia madre – che era corsa in strada – mi ha incontrata proprio in piazza Vittoria: lo stesso luogo da dove ero stata portata via. Quando mi ha vista ha incominciato a gridare “Oggi sono una regina! Oggi sono una regina!”, perché finalmente mi aveva ritrovata”.Per Gabriela non è stato semplice nemmeno una volta rientrata a casa: “ho avuto difficoltà a trovare un lavoro non so bene come mai ma, potrebbe essere che i titolari delle aziende avessero paura ad assumerci, perché magari pensavano che fossimo malati o diventati pazzi. Alla fine ho trovato impiego prima in una fabbrica di palchetti e poi in una ditta a Savogna”.Inoltre, a causa del forte dolore provato, per lungo tempo Gabriela non ha voluto frequentare le associazioni dei reduci deportati: “mi avevano chiamata anche in giro per l’Italia, a Roma, a Milano, in diverse località, per prendere parte alle commemorazioni e raccontare la mia storia, ma non ci sono mai riuscita ad andare; per me erano ricordi troppo brutti e temevo di rivivere tutto quello che avevo passato. Desidero ricordare a tutti che queste sono tutte verità, cose reali, non ci sarebbe scopo di raccontare qualcosa che non è vero”.