Una Chiesa madre che genera e rigenera se stessa

Si è appena conclusa a Romans d’Isonzo la XVI settimana di formazione per catechisti, organizzata dall’Ufficio Catechistico Diocesano con la collaborazione dell’Ufficio Liturgico, del Centro Pastorale e della parrocchia Maria Annunziata di Romans, che ci ha ospitati in modo impeccabile.Si è svolta in tre serate molto intense, ricche di spunti, riflessioni, momenti comunitari di condivisione e approfondimento, di convivialità e conoscenza reciproca. Fil rouge di tutti gli incontri e fondamentale sentimento comune, che si respirava nell’aria, è stato il bisogno e la voglia di rinnovamento, l’urgenza quasi, e nel contempo la gioia che scaturisce dal rimettersi in gioco in modo nuovo, dalla presa di coscienza della nuova missione della Chiesa, una Chiesa che genera e rigenera se stessa.”Se la Chiesa non genera, non è generata” – sono parole del nostro Arcivescovo Carlo, che ha aperto gli incontri con un momento di preghiera – “L’iniziazione di nuovi cristiani non è un aspetto secondario per una comunità. Se mancano nuovi cristiani, la comunità muore”. Ecco dunque l’urgenza e la necessità di adeguare gli attuali percorsi di catechesi, convertendoli in percorsi di Iniziazione Cristiana, il cui fine non è semplicemente preparare ai sacramenti o trasmettere contenuti e sapere, ma integrare in un percorso globale, graduale ed esperienziale tutte le tappe del cammino per diventare cristiani.

“Ci troviamo alla fine del Cristianesimo cosiddetto sociologico, ricevuto per eredità e praticato per dovere. Un tempo la fede si trasmetteva per osmosi nella società, in famiglia, a scuola. La “dottrina” in parrocchia doveva insegnare solamente i contenuti del credo cattolico e preparare al ricevere i sacramenti. Man mano, nel tempo, si è verificato uno scollamento sempre più profondo fra fede e vita del mondo moderno, rendendo inefficace e fallimentare l’approccio conservatore e facendo sentire necessario un cambiamento di prospettiva ed azione: dall’autoconservazione ad una nuova evangelizzazione. Ormai i cristiani non sono più la massa e proprio per questo in essa devono diventare lievito” . Questo l’incipit della relazione di Don Marino Rossi, direttore dell’Ufficio Catechistico della diocesi di Concordia-Pordenone, che ci ha mostrato qual è il volto educativo di una comunità che “inizia” alla vita cristiana. Importante recuperare, infatti, la consapevolezza di essere “popolo di Dio” con un ruolo attivo ed indispensabile: è la comunità il soggetto dell’iniziazione cristiana. Dobbiamo educarci, come comunità, a rispecchiare il ruolo della Chiesa discepola, madre e maestra nella fede (EVBV 20) e imparare l’arte dell’accompagnamento (cf. Es 3,5), diventando una comunità cristiana umana e umanizzante, riscoprendo il nuovo umanesimo in Gesù Cristo (IG 72; GS 22, 41; Traccia Fi 19) attraverso cinque vie: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare.Nel concreto, dobbiamo imparare a “toglierci i sandali davanti alla terra sacra dell’”altro” (cf Es 3,5) e dare al nostro cammino “il ritmo salutare della prossimità” (EG 169), ponendo al centro della nostra azione l’attenzione e la cura per le persone, l’accompagnamento dei giovani, delle famiglie e degli adulti, le relazioni fra persone e fra parrocchie diverse, verso un’azione pastorale sinergica e integrata. “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”(EG 49). Questo significa essere “Chiesa in uscita”, come ci sprona a diventare Papa Francesco; perché se sperimentiamo l’incontro con Cristo e adottiamo il suo stile non possiamo non sentirci spinti ad uscire, sporcarci, ferirci: “la vita si rafforza donandola e s’indebolisce nell’isolamento e nell’agio; cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo. Possa il mondo del nostro tempo – che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza- ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti ed ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo” (EG 10).

Ma allora da dove partire per rivoluzionare la formazione dei nuovi cristiani? Don Giorgio Bezze, direttore dell’Ufficio Catechistico della diocesi di Padova, coadiuvato da Marzia Filippetto, laica consacrata responsabile della Casa di Spiritualità di Fiesso d’Artico, ci hanno fatti lavorare sul concetto, per molti fumoso e poco chiaro di “Iniziazione Cristiana”, attraverso laboratori di dialogo e confronto fra catechisti della stessa città o di parrocchie vicine: un modo semplice ed efficace per incentivare la collaborazione fra di noi, aprendoci al contatto con le realtà che ci circondano. L’Iniziazione Cristiana è il nuovo approccio e il nuovo percorso da adottare affinché la Chiesa torni a generare cristiani.Cosa si intende dunque con questa espressione? Partiamo dall’etimologia: inizio + azione. Potremmo chiamarlo tirocinio o apprendistato. Il meccanismo è lo stesso: si parte dall’esperienza, guidati ed accompagnati per acquisire man mano anche la conoscenza, in un cammino diffuso nel tempo e scandito dall’ascolto della Parola, dalla celebrazione e dalla testimonianza della comunità, per giungere infine all’impegno di una scelta di fede, vivendo come figli di Dio, secondo il Vangelo. Questo processo viene definito globale, perché vengono coinvolte tutte le componenti della persona (cognitiva, emozionale, relazionale, volitiva); è importante che sia graduale, scandito da tappe che aiutano ad assimilare la nuova identità di cristiani: esse sono i Sacramenti. È fondamentale ri-tarare la nostra considerazione dei Sacramenti, troppo spesso considerati come il fine dei singoli “corsi di catechismo”, e non come tappe di un percorso unitario, quali invece devono essere.

Dai laboratori svolti sono emersi molti aspetti positivi ricollegati al concetto di “iniziazione”, ma poi sono sorti i vari problemi, molti dei quali riguardanti l’attuazione: come realizzare tutto questo nella pratica? “Privilegiate la qualità alla quantità” – rispondeva don Giorgio – “perché non uscire dallo schema mentale del tempo settimanale? Perché non prevedere meno incontri magari, e più esperienziali e lunghi? Ricordate che dovete condurre i bambini e i ragazzi ad una scelta di fede, e affinché questo avvenga sono necessari tempi di maggior respiro, più ampi rispetto a quanto serviva una volta solo per imparare le cose”. L’esperienza permette la mobilitazione dell’intera persona, in tutti i suoi aspetti, in particolare quelli emozionali e relazionali; comporta un incontro, e con esso il vivere la dimensione della la testimonianza, una delle tre componenti fondamentali a cui già prima si accennava: catechesi, liturgia e carità. Non dimentichiamoci, inoltre, di considerare il mondo dei ragazzi, molto più ricco, sfaccettato e spesso controverso rispetto alla realtà del secolo scorso: “Per avvicinarci a loro dobbiamo intercettare il loro sguardo, e per fare questo dobbiamo chinarci, esattamente come fa quel padre, per accogliere il suo bambino” – così Marzia commentava il dipinto di Van Gogh “I primi passi” (1890) – “siamo chiamati a piegarci, creando uno spazio educativo a loro misura, che favorisca la loro crescita”. E non solo: “Guardiamo ora alla madre, che possiamo considerare come la comunità intera; osserviamo come sostiene il suo bambino, senza però trattenerlo, mentre muove i primi passi, e lo sospinge dolcemente verso il padre”. Ricordiamo che il soggetto primo dell’iniziazione cristiana è la comunità. Essa è chiamata ad “esserci” accanto ai suoi figli, a creare attorno a loro le condizioni perché possano muovere fiduciosi i loro passi, alla luce della Parola, partecipando in prima persona dunque al loro cammino. “Non lasciate il catechista isolato” – consigliava ancora Marzia – “è importante lavorare in sinergia: tutte le figure di apprendimento che ruotano attorno al ragazzo vanno coinvolte, in primis i genitori”.

Tasto dolente, quest’ultimo, approfondito nell’incontro dell’ultima sera, nuovamente supportati da don Giorgio Bezze e Marzia Filippetto.”Dobbiamo renderci conto del fatto che fino ad ora abbiamo vissuto nell’illusione” – ha esordito don Giorgio – “anni ed anni di catechismo classico a cosa hanno portato? A ritrovarci oggi con adulti che lasciano i propri figli alla Santa Messa o agli incontri di catechismo come fossero servizi di baby-sitter oppure solo perché spinti dal “dovere sociale” ancora presente in loro o nei nonni; spesso sono loro a sollecitare la frequentazione del catechismo e della parrocchia: ci troviamo di fronte all’onda lunga del cristianesimo sociologico, ne osserviamo gli ultimi strascichi. E’ palpabile il loro disagio nel sentire come un dovere anche personale l’educazione cristiana dei figli, consapevoli che nel sacramento del Matrimonio hanno ricevuto la grazia e la responsabilità di fare ciò, ma nel non essere più in grado di farlo, avendo loro per primi difficoltà in questo ambito. Dobbiamo capire che questi genitori vivono una religiosità, fatta di norme, abitudini, riti, e non una fede, che richiede invece un profondo coinvolgimento interiore e l’incontro personale con Cristo”. La cultura attuale non trasmette la fede, ma promuove la libertà religiosa: in questo orizzonte la fede diventa un dono, una scelta e quindi una responsabilità, intesa come risposta all’amore donato.

“Intercettiamo i genitori nel momento più intenso della loro vita: la nascita dei figli porta un grande sconvolgimento nei loro cuori e nella loro quotidianità, li porta a rimettersi in discussione, in cammino, a riscoprirsi nel profondo. Questa fase è terreno fertile, appena arato, per piantare i semi di un rinnovamento anche spirituale”. Partendo da questo presupposto, don Giorgio ci ha spinti a considerare il fatto che con gli adulti non si parte mai da zero: “Siamo chiamati in primo luogo ad osservare e vedere il bene che già c’è, tenendo presente il cammino personale di ognuno di loro, senza mai giudicare, cercando invece di offrire loro l’occasione che non hanno mai avuto, o che a suo tempo non hanno colto”. È la logica del secondo annuncio, da portare a chi ha sentito parlare di Gesù Cristo e ha già ricevuto i Sacramenti, ma non lo ha mai accolto nella propria vita, non lo ha mai effettivamente scelto; è un annuncio che deve quindi essere inteso in senso generativo.”Ero anche io nella categoria dei “figlioli prodighi”, coloro che si erano allontanati dal Signore e dalla Sua Chiesa” – ha raccontato Marzia nella sua testimonianza – “ho riscoperto la fede da adulta, accompagnata con tatto, comprensione e competenza da persone che mi hanno fatta incontrare con Cristo… e non l’ho più lasciato. Ho voluto scendere in prima linea per donare anche ad altri come me, quello che io avevo ricevuto”. Marzia ci ha parlato della sua vita, di come si è convertita, con una gioia ed un entusiasmo invidiabili – “noi convertiti siamo così, dei vulcani” – scherzava.

Così ha commentato la parabola del figliol prodigo: “Quando si vive lontano da Dio, pian piano ci si riveste di pensieri e comportamenti lontani dal messaggio evangelico; convertirsi significa tornare indietro, tornare a casa. E per tornare si ha bisogno di trovare qualcuno che ti accoglie e non giudica, e di servi che portino abiti nuovi, per rivestirsi di Cristo”. Cosa offriamo noi, nelle nostre parrocchie e comunità, agli adulti? Siamo come quel padre, con le braccia spalancate, pronti a intessere relazioni continuative con loro, e non solo sporadiche o in occasione di? “Abbiate verso di loro l’atteggiamento della cura; dedicate loro il vostro tempo, create un clima relazionale favorevole, senza imporre nulla e invece ponendovi in ascolto con rispetto e attenzione, in modo semplice e con delicatezza. Curate i dettagli: gli orari, il luogo, l’ordine della sala, le luci… fate in modo che si sentano come a casa, in famiglia: i dettagli sono lo stile di Dio” – suggeriva ancora Marta – “Non hanno bisogno di lezioni o spiegazioni, ma di ritrovare il gusto di vivere la fede: per fare questo seguite i criteri della plausibilità e utilità, e della piacevolezza”.

Alla luce di quanto ascoltato ci rendiamo conto che anche per i percorsi dedicati agli adulti il fine è quello di diventare cristiani e quando arriveranno a dire “sì, nella Sua Parola, c’è una parola anche per me” e a percepire, come Marzia, che davvero “Egli fa nuove tutte le cose”, anche la loro stessa vita, donando una pienezza, un’integrità e una sensibilità uniche, allora ognuno di loro sarà “entrato una seconda volta nel grembo di sua madre e rinato […] nato dall’alto, da acqua e Spirito” (Gv 3, 1-20).Ecco allora il volto di una Chiesa madre, che sa rigenerare se stessa per generare ancora. Tutti noi siamo chiamati ad essere seminatori di cambiamento, passando da una catechesi di mantenimento ad una catechesi di primo annuncio, in cui la fede non si dà per scontata, ma va fatta nascere; rileggendo e riconfigurando i percorsi di Iniziazione Cristiana in prospettiva catecumenale; passando da percorsi puerocentrici a itinerari adultocentrici; lavorando in sinergia fra parrocchie e operatori pastorali e ricordando che “Prima dei catechismi sono i catechisti, anzi, prima ancora ci sono le comunità cristiane” (DB n° 200).