Non siamo “giornali di sagrestia”

Forse è la prossimità che permette alle testate cattoliche diocesane di affrontare con fiducia e speranza, seppure accompagnate da timore e paura, la grande crisi dell’editoria, specie quella stampata, che continua in Italia a falciare giornali anche grandi e forti e a costringerne altri a ridurre le pagine e anche la diffusione e l’influenza.Il farsi prossimo e l’aver cura degli altri son raccomandazioni che Papa Francesco regala spesso nei suoi interventi ad ogni livello e in tutte le direzioni. Lo ha fatto anche, specificatamente, con i giornalisti ricordando come il nostro lavoro, delicato e prezioso, non possa non contribuire ad aiutare la crescita della persona e della comunità.Le testate della Fisc, in questo compito, che a molti piacere chiamare missione, si ritrovano d’accordo, le grandi, che sono vere e proprie aziende editoriali che danno lavoro e operano soprattutto al Nord, e le piccole, che si fondano perdipiù, quando non esclusivamente, sul volontariato e si trovano soprattutto in Centro e nel Sud Italia.I giornali di carta stampata (è risaputo) non danno più la notizia fresca perché in questo sono preceduti dai nuovi media, soprattutto quelli pubblicati in rete e dai social, che svolgono, questi ultimi ormai una vera e propria funzione informativa, con tutti i rischi che ne derivano, soprattutto legati alla veridicità di quanto pubblicato e agli effetti che ne conseguono, oltre che da radio e Tv. In effetti non sono nati per dare notizie, anche se per decenni, alcuni anche per oltre un secolo, le notizie le hanno date, specie quelli operanti al servizio di piccole comunità.Sono nati per far conoscere il messaggio evangelico, per spiegarlo alla gente in maniera semplice ed accessibile; per informare sulla vita della Chiesa universale e di quelle locali, ma anche sui temi sociali e quindi anche politici; per fare crescere le comunità; per offrire uno strumento di conoscenza e di riflessione. Non per niente, alcuni decenni fa, la Fisc forgiò per le testate aderenti lo slogan, che descrive bene ancora oggi, il loro ruolo all’interno della Chiesa e della società, di “Giornali della Chiesa e della gente”.Osservatori e sociologi che continuano a sottovalutarci, anche se ormai in pochi, definiscono i nostri come “Giornali di sagrestia”; si sbagliano clamorosamente; ci confinano all’”ombra dei campanili”, alludendo al condizionamento che eserciterebbero i Vescovi, sulla nostra attività; condizionamento che rappresenterebbe anche una umiliazione professionale.Ma non è così in alcun modo. L’esperienza vissuta ancora oggi ne “La Voce dell’Jonio” mi porta a testimoniare che i Vescovi succedutisi sono stati prodighi di consigli e indicazioni, peraltro quasi in buona parte richiesti, e mai hanno dato ordini circa linee editoriali da seguire, prospettive da dare agli argomenti; mai hanno condizionato il giornale, dalla sua fondazione nel 1958 ad oggi. Esperienza, questa de “La Voce dell’Jonio”, che vale la pena di ricordare perché singolare nel significato proprio del termine, cioè unica. Si tratta, infatti, di una testata che non è di proprietà della Diocesi, né di enti o associazioni collegate ad essa. Fondata e diretta da mio padre, Orazio Vecchio, che la definì il suo “settimo figlio”, oggi è edita dall’associazione culturale omonima che, nel suo statuto, pone il giornale al servizio della Chiesa e delle comunità locali. Quindi, la grande famiglia de “La Voce”, per scelta libera e convinta, non può che essere proprio “Giornale della Chiesa e della gente”.E questo fa, attingendo al ricco bacino di servizi fornito dal Sir e seguendo la vita della Chiesa locale e delle sue comunità, spesso con pagine speciali su temi vari, come le feste patronali, i grandi avvenimenti parrocchiali e anche quelli sociali. Con un taglio che cerca di andare oltre la cronaca per spiegare, fare capire, sottolineare, anche e soprattutto facendo parlare i protagonisti degli eventi, quelli conosciuti e quelli sconosciuti, quelli esposti e famosi e quelli nascosti e ignorati.Questa esperienza è possibile grazie a un gruppo di operatori culturali, una buona metà giornalisti, che si impegnano in assoluta gratuità, convinti di svolgere un servizio utile per la Chiesa e per la società.    Negli ultimi anni ci troviamo a trattare argomenti, relativi ai migranti, che sono da sempre pane quotidiano per la “Voce Isontina”, argomenti che ci ricordano come la Sicilia sia anch’essa una terra di confine, come il Triveneto. In verità nella diocesi di Acireale sono ospitate piccole comunità di giovani immigrati in attesa della verifica del loro diritto di asilo. Comunità che sono accettate senza problemi (a parte qualche gesto di insofferenza di qualcuno che non sopporta il loro accostarsi ai semafori, a chiedere l’elemosina o a offrirsi per la pulizia dei vetri delle auto); comunque, si tratta di persone che non è possibile esporre perché il loro status non lo permette.La Sicilia, che è sempre stata terra di accoglienza a popoli provenienti dall’Africa come dal Nord Europa, si rispecchia nello spirito di Lampedusa, ormai noto in tutto il mondo. Anche in questo, oltre che nell’attività di servitori della Chiesa come “Voci” che parlano alla gente, ci sentiamo vicini alla “Voce Isontina” cui auguriamo un lavoro lungo e proficuo.

*direttore de “La Voce dell’Jonio”, Acireale