Ed il 31 maggio 1972 la città perse la sua innocenza

Ieri mattina verso le 10 un giovane bulgaro ha scelto la libertà passando clandestinamente il confine nella zona di via Catterini. Presentatosi all’Ufficio stranieri della Questura, dopo gli accertamenti di rito è stato avviato al campo profughi di Padriciano presso Trieste.Era la prima notizia che mezzo secolo fa gli aspiranti cronisti goriziani imparavano a redigere. Avrebbero dovuto ripeterla, con poche variazioni, all’infinito. Offriva poco la cronaca cittadina, l’ambiente tranquillo e in apparenza sereno si animava nelle rare occasioni di ricorrenze storiche che generavano cerimonie patriottiche e d’arma, e in pochi altri momenti, partita di basket compresa.La storia del secolo breve era di nuovo passata a Gorizia con brutalità trasformando la città in una piccola Berlino: il confine interrompeva le strade, divideva i cortili, strisciava tra le tombe. E al di là del filo spinato un altro mondo cominciava alla Casa Rossa e finiva a Vladivostok. Gorizia era stretta in un angolo lontano e dimenticato, luogo di dolorosi ricordi, di assenze e amarezze, di grandi silenzi. Il muro era spesso e alto, odiato.La bora portava l’odore del carbone e il rumore dei respingenti dalla stazione Montesanto, lo scirocco accentuava i miasmi del Corno. La città era in trappola, prigioniera.Perché ricordare queste cose? Per dare il giusto valore a quello che avvenne dopo, quando Gorizia trovò in se stessa, con lungimiranza e coraggio, la forza di cambiare la storia.Fu una vera rivoluzione culturale che coinvolse mentalità, modo d’essere, prospettive. I primi contatti con Nova Gorica si svolsero praticamente in clandestinità-si dialogava col diavolo quando le ferite erano ancora aperte ma portarono in breve a risultati concreti anche per la disponibilità dei nostri vicini, alle prese con seri problemi economici e sociali.L’irrompere delle nuove idee, che ebbero il pregio di allargare a una dimensione europea le iniziative locali, creò un clima stimolante, a volte entusiasmante: la città comprese di aver imboccato la strada che le avrebbe finalmente permesso di aprirsi a concrete prospettive di crescita e di sviluppo. Non mancarono perplessità e resistenze, ma le voci contrarie persero via via convinzione e vigore. Alcuni preferirono lasciar fare e starsene alla finestra.Il confine non divide i ciliegi del Collio – si scriveva con un pizzico di retorica – e dalle curve di Oslavia le due città sembrano una sola.Voce Isontina nacque in quegli anni, e fu uno dei primissimi settimanali diocesani a liberarsi, come si diceva allora con un certo orgoglio, dall’angusto perimetro del sagrato per aprirsi alla società civile e ai suoi problemi. Non solo campanili, orari di funzioni, santini e madonnine, ma politica, economia, cronaca e società.

Un giornale per dialogare con il mondo del tempo, come scrisse il direttore Maffeo Zambonardi nel primo editoriale. E la linea del settimanale si collocò dalla parte di chi voleva una Gorizia diversa, protagonista di una fase storica nuova da scrivere su un confine di collaborazione e di pace.Don Maffeo era la persona giusta per recepire i segni dei tempi: mentalità aperta, entusiasmo, motivazioni, capacità di riunire attorno al giornale personalità politiche e culturali di rilievo (Celso Macor, Pasquale De Simone, Sergio e Luigi Tavano tra i più assidui ) e giovani di belle speranze (tra i quali Renzo Boscarol che del giornale sarebbe diventato direttore).Tra il dire e il fare c’era ovviamente il mare, ma l’impegno non mancava mai. La Voce che viene presentata è modesta – disse l’arcivescovo Pangrazio all’inaugurazione del Centro Studium, che ospitava anche la nuova sede della redazione – ma vuole essere sincera e aperta, capire i fermenti del nostro ambiente, riannodare la storia di un passato pieno di grandezza per rinnovarla nel presente.Mons.Pangrazio, che doveva diventare segretario generale della Cei, chiedeva di facilitare il colloquio tra le componenti del corpo sociale per superare differenziazioni storiche ed etniche. Un’epoca nuova è balzata alla storia, diceva l’arcivescovo, indicando così una strada senza ritorno al giornale che aveva voluto.Una curiosità. Mons.Pangrazio si recò oltre confine al santuario di Montesanto solo nel febbraio del 1967 quando concluse il mandato, nel rispetto dei problemi della suddivisione delle diocesi che furono risolti più tardi con il trattato di Osimo.

Da città lontana e dimenticata, Gorizia si trasformava a poco a poco in un avamposto di dialogo e di riconciliazione evitando, con la moderazione e la saggezza mitteleuropea tipiche della sua tradizione, asprezze e conflitti che invece perduravano altrove. Ma in quegli anni c’era tutto un complesso di avvenimenti, di iniziative, di interventi a livello anche internazionale che in qualche modo finivano per parlare a Gorizia e alla sua storia nuova.

Pochi mesi prima della nascita di Voce isontina, per esempio, la Pacem in terris aveva chiesto di ricercare ciò che unisce e non ciò che divide. Cerchino tutte le nazioni, tutte le comunità politiche, il dialogo, il negoziato, aveva scritto Papa Roncalli nella rivoluzionaria enciclica rivolta non solo ai cattolici, ma aperta al mondo.La pace era tema di dibattito quotidiano che coinvolgeva l’opinione pubblica internazionale. E nel suo piccolo Gorizia portava un importante contributo di idee e di iniziative soprattutto in campo culturale.

La cultura fu la chiave di volta.Tutte le scelte di carattere politico-amministrativo ed economico furono preparate e supportate da tesi e approfondimenti che chiamavano in causa la storia della città, i convincimenti dei grandi nomi della sua tradizione, il pensiero dei goriziani illustri che in quegli anni operavano in vari campi della vita nazionale e internazionale. Voce isontina ascoltava, registrava e anche partecipava attraverso le sue firme di punta.Ci si occupava delle cicliche crisi delle maggiori aziende isontine (da Monfalcone Mafaldo Cechet), delle servitù militari che gravavano su vasti territori e impedivano lo sviluppo dell’agricoltura, delle possibilità di realizzare collegamenti che risolvessero l’insostenibile isolamento. Ma anche della storia del movimento cattolico (con gli studi di Camillo Medeot), di Aquileia e delle indagini archeologiche che erano sempre ricche di novità, della riscoperta delle vicende della comunità ebraica e del recupero delle sue testimonianze storiche, della rilettura delle drammatiche fasi della prima guerra mondiale.

Nella linea editoriale del giornale c’era un’altra parola fondamentale: convivenza. I rapporticon la comunità slovena e la salvaguardia dei suoi diritti erano passaggi fondamentali se l’intenzione sincera era quella rinnovare i tempi.Gorizia infatti aveva bisogno che la comunità slovena contribuisse direttamente alla soluzione dei tanti problemi che assediavano la città e che ne frenavano lo sviluppo. Gorizia era terra di ideali, alcuni dei quali, come l’esperienza del professor Basaglia, rasentavano l’utopia. La chiusura del manicomio fu evento di portata planetaria.Quando nacque l’idea straordinaria che diede vita agli Incontri culturali mitteleuropei (il Concorso Seghizzi già portava in città da qualche anno complessi corali di paesi del blocco comunista) qualcuno scosse la testa e parlò di recupero di un passato ormai tramontato. C’era la possibilità che i popoli della mitteleuropa rimettessero in gioco un sentire comune, ciò che li aveva uniti aveva ancora un senso? Ma la storia doveva dimostrare quanto quell’idea portasse in sé il seme dei tempi nuovi, quanto fosse moderna e lungimirante. Indimenticabile, anche per i cronisti, il primo incontro dedicato alla poesia. I luoghi simbolo della città, il castello e palazzo Attems, ospitarono i più celebrati poeti del tempo. Giuseppe Ungaretti, ritornato per la prima volta sui luoghi della Grande guerra che drammaticamente aveva cantato in versi immortali, con la visita ai campi di battaglia del Carso e con un celebre discorso diede praticamente il via libera al percorso nuovo che Gorizia stava affrontando.

Molte di queste cose si specchiarono in Voce Isontina. Ma la Gorizia degli anni Sessanta del secolo scorso fu veramente la magica città dei poeti, un’isola felice? O è soltanto un ricordo di giovinezza? Se veramente lo fu, forse possiamo individuare anche il momento preciso in cui cessò di esserlo quando, in un certo senso, perse l’innocenza.La sera del 31 maggio 1972, all’improvviso, la città fu travolta da una realtà da cui pareva estranea e si sentiva immune. Il terrorismo la raggiunse e la travolse con l’attentato di Peteano e con tutto quello che ne seguì.