Era l’Italia del 12 dicembre

Era l’Italia del 12 dicembre*.Ed erano per noi i tempi della Zona Franca e del “benedetto” confine, che rigonfiava di denaro tasche, materassi e banche, ma anche del lento declino dei cotonifici, il Triestino di Piedimonte e il Goriziano di Savogna: quasi cinquemila posti di lavoro in fumo in pochi anni.Era la stagione del no studentesco al sincrotrone sul Carso e l’autunno si faceva caldo con la protesta vigorosa dei metalmeccanici.L’Isontino ribolliva: di idee, di tensioni, di passioni, ma soprattutto di speranze. Coltivate da chi pensava che, attraverso l’impegno culturale, la costruzione di una nuova Europa potesse passare anche attraverso queste terre.Una piccola realtà raccontata, allora, dal Piccolo, ancorato solidamente a posizioni – per dirla all’inglese – di grande conservazione; dal Gazzettino, legato allo strapotere doroteo del Triveneto, e dal Messaggero Veneto – di fresca stampa nella sua edizione goriziana – e votato, nella sua impostazione udinese, a non disturbare mai il manovratore.Si aggiungevano al panorama informativo locale il Primorski Dnevnik e il Katoliski Glas nei quali si rifletteva il mondo sloveno: nel primo quello “rosso”, nell’altro il “bianco”, distinzioni cromatiche non riconducibili essenzialmente alla sommaria identificazione di quello che sarebbe poi diventato il vero tesoro del Collio.E poi stava germogliando un’altra realtà, una Voce, quella Isontina, allora timidamente un po’ fuori da quello che dava l’impressione di essere un coro a bocca chiusa.Don Maffeo ne era il direttore e la sua, si direbbe ora usando forse un eufemismo, era una presenza molto discreta. Al di là dell’editoriale, e non sempre, lasciava spazio nell’impostazione del settimanale a don Renzo il suo braccio destro… e anche quello sinistro. Il giornale nasceva nelle Olivetti di molti uomini di cultura della provincia (Celso Macor e Gorizia, Mafaldo Cechet a Monfalcone tanto per citarne due) di diversi (ma non troppi) parroci e sacerdoti e poi prendeva forma nella serata di martedì nelle due stanze di via Diaz 16 che componevano la redazione del Messaggero Veneto.Maurizio Calligaris, l’unico giornalista, capo di se stesso, e confortato nell’impari confronto con le altre strutture locali da alcuni vivaci collaboratori, metteva al servizio della Voce tutta la sua esperienza. Con matita e righello disegnava sui fogli il menabò, cioè componeva l’aspetto grafico della pagina; poi passava alla titolazione secondo i canoni che prevedevano occhiello, titolo e sommario. A noi, giovani “abusivi”, come venivano definiti allora i collaboratori dei giornali che svolgevano attività di redazione, il compito di controllare i testi delle pagine che arrivavano dalla diocesi “fuori provincia” (Cervignano e Aquileia o Duino e Sistiana) e, talvolta, giungeva la concessione di uno scritto. Arrivava sempre notte fonda. Non ho mai visto Renzo uscire da quelle stanze con il plico di testi e fotografie e salire sulla sua 500 nella stessa giornata in cui era entrato.La stessa mattina sarebbe poi andato a Udine alle Arti Grafiche a consegnare tutto il malloppo che avrebbe impaginato, a suon di piombo (quello composto in eccesso che finiva poi rumorosamente nel cestino del tipografo) nell’indomani.Renzo e Maurizio, una collaborazione fatta di sintonia. Le uniche divergenze tra i due, accompagnate da feroci polemiche, nascevano per un problema di colore. Si ritrovavano sul nero, ma si dividevano sul bianco e il rosso. L’uno juventino, l’altro milanista. Ma di calcio si discuteva solo a giornale “chiuso”. Nel corso della serata si cercava di capire come interpretare al meglio le esigenze di una società che stava cambiando, i problemi che stavano esplodendo, le crisi che incalzavano e le speranze, e sogni e i progetti che tardavano a concretarsi.Quelle pagine diventavano, settimana dopo settimana, laboratorio per far maturare anche la coscienza civile, per uscire dal conformismo, per accostare sempre di più l’informazione al servizio della verità. E man mano lievitava e prendeva corpo questa Voce al di fuori degli schemi canonici e tradizionali (evidente il confronto con la Vita Cattolica di Udine o Vita Nuova di Trieste) cresceva il brontolio dei tradizionalisti della curia goriziana. Monsignor Cocolin, sornione come sempre e come sempre più orientato verso “gli ultimi” lasciava sostanzialmente fare.La mia testimonianza di quelle serate dei martedì si interruppe nel maggio del ’73 quando andai a Udine. Tre mesi dopo Maurizio venne chiamato a Trieste. E la Voce lasciò anche via Diaz 16.

*12 dicembre 1969. La strage di Piazza Fontana