Arcivescovo del primo millennio

La vicenda umana e pastorale si è conclusa e molte testimonianze -in particolare degli incontri negli ultimi mesi- mettono in risalto anche la figura e la personalità dell’arcivescovo Dino De Antoni (Chioggia 1936-Gorizia 2019): figlio di pescatori, parroco, vicario generale e arcivescovo con una vita lineare e una assunzione di responsabilità pastorali giunta a conclusione dell’esistenza ed un servizio episcopale vissuto nello spirito dei tempi oltre che della sua origine. Un vescovo del secondo millennio, dunque, un vescovo che è nato con il Concilio e che ne ha percepito le opportunità e vissuto la prima realizzazione, certamente fuori da schemi e impaludamenti. Il seminario e gli studi sono avvenuti nel tempo di mons. Piasentini (per quanti lo hanno conosciuto esempio, come altri, di vescovo prima del Concilio e non solo), parroco della pianura veneta negli anni sessanta, una laurea in storia e diritto canonico con ricerche e studi sulla storia della diocesi, un servizio di parroco della cattedrale e di ponte fra tre episcopati della chiesa clodiense e, infine, la nomina a Vescovo di una diocesi e di una città che -per sua ammissione- dichiarò subito di non conoscere se non per un modesto evento adolescenziale.Veneto fino al midollo, monsignor De Antoni, alla delegazione goriziana che lo aveva salutato nella sua casa a Chioggia, centocinquanta chilometri dalla sede episcopale alla quale era stato chiamato, esprimeva subito la commozione sincera per l’elezione e il desiderio di sentirsi parte non di una istituzione ma di una fraternità, alla quale va aggiunta la naturale bontà d’animo non certo affettata e diplomatica ed un senso spiccato bisogno di calore e di semplicità.Un approccio che diceva molto del modo secondo il quale sentiva e desiderava esprimere il suo servizio ministeriale a Gorizia. Nel primo spicchio del secolo ventunesimo,  essere vescovo con il cuore in mano anche a scapito di alcuni rinvii e tergiversazioni e anche qualche indecisionismo, gli è sembrato naturale, gli è venuto semplicemente dal cuore. Tale strada, unita alla profonda formazione e preparazione culturale, gli ha consentito  progressivamente di vivere anche le altre dimensioni e responsabilità episcopali in una comunità nuova per lui con una storia complessa e una tradizione specifica. Monsignor De Antoni si è dimostrato conoscitore di uomini, esperto nei rapporti umani e desideroso di essere accolto per quello che era; uomo di raccordi e di compromessi alti; uomo che guardava al cuore di chi aveva davanti e si sforzava sempre di esprimere accoglienza e disponibilità,  al di là di interessi o di obbedienze preventive. Credere a tutto questo, significa legare vita e fede; e, non è di tutti.Un grande aiuto gli è venuto da un felice tratto umano e da una innata signorilità, oltre che dalla consapevole scelta che affiancarsi alle persone e conoscerle più a fondo, è una strada che poteva agevolare la ricerca di soluzioni anche su tematiche difficili e complicate; messa al centro la vita della persona, ciò che conta  prima di tutto è far sentire ad  ognuno di sentirsi amato. Solo dopo è possibile chiedere una collaborazione, una decisione e una corresponsabilità.Far emergere tutto questo nelle riunioni programmatiche come nelle occasioni pubbliche, oltre che nei colloqui personali, è stata la scelta del uomo e prete diventato vescovo. Una premessa che non gli costava e che apriva molte porte; perché tutto sommato non credeva al decisionismo e tanto meno alle forzature; sapeva incassare e nella competizione fra persone, usava tattiche diverse nella convinzione a condizione di non perdere amicizie o invalidare le relazioni personali.Il vescovo De Antoni sentiva questa come la dimensione realistica dell’essere uomo, dell’essere prete e vescovo, della chiesa dei tempi. Un modo di sentire e di essere che ha fatto breccia nei suoi interlocutori ed in quanti lo hanno incontrato, anche quando è stato per un periodo presidente della conferenza del vescovi del nord-est.. Una percezione che , man mano, si è accentuata e confermata proprio nell’esercizio della seconda decisiva dimensione dell’esercizio pastorale, la predicazione.  Per il vescovo  don Dino,  predicare era un vero piacere ed un’arte da tutti apprezzata; si faceva ascoltare e non diceva mai niente di banale; sapeva tenere attaccati al tema gli uditori, anche diversamente rappresentati; aveva sempre un buon inizio ed una migliore conclusione. Una vera e propria arte che ha curato con una dedicazione attenta e meticolosa e che ha dato frutti significativi  grazie alla sensibilità del predicatore e alla preparazione teologica e pastorale del vescovo.  Non dovrebbe essere difficile, rispetto ad altri casi, scegliere alcuni esempi per una pubblicazione indicativa e riconoscente.Il ministero della parola per il vescovo è esiziale: denota non solo il profilo teologico e mette in  riga la progettualità della sua azione pastorale tra formazione e educazione, ma anche tra strategia e singole opzioni. Certamente sono riuscite di buon aiuto al vescovoIl fatto di dettare gli esercizi spirituali, compito molto richiesto e anche ambito. Nella progettazione pastorale ha potuto contare su altri aiuti.Infine, nelle attenzioni del vescovo alla vita comunitaria, vengono alla luce due altri criteri e opzioni. In primo luogo la capacità di essere presente sugli avvenimenti della chiesa e della società, senza lasciarsi prendere dalla ipotesi impensabile ormai di essere primo attore, chiesa e vescovo hanno opportunità precise: dalla carità e organizzazione sul campo di presidi capaci di rivelare il senso delle prese di posizione ecclesiali, alla scelta delle emergenze (il Car di Gradisca e quello che stava dietro, le crisi occupazionali nelle aziende locali) , anche il tema della cultura e della capacità di essere profeticamente presenti nell’ambito sociale e culturale.Il vescovo De Antoni, infine, ha fatto proprio l’impegno di conoscere la specificità della diocesi goriziana fin nei particolari, di assumerne le caratteristiche vere e proprie, imparando a condividerne storia e geografia, a mettere da parte il discorso delle minoranze per scoprirne le bellezze e differenza come un vantaggio. Ad immedesimarsi nelle comunità di componente prevalente slovena e insieme a valorizzare le altre differenze a sentirsi accolto da tutti e a partecipare alla loro difesa e promozione. Conservando la propria identità, De Antoni si è fatto “goriziano”, innervato in ogni componente della quale poteva interessarsi, comunicare, ricevere e dare.Sono tratti di un incarnazione con la chiesa locale alla quale è stato mandato per un servizio di valorizzazione e di estrinsecazione, potenziando le specificità ed  educando le parti a comprendersi nella ricchezza delle diversità. Operazione complicata, tutta da re-iniziare ogni giorno, consapevoli che le trasformazioni che viviamo sono “veri e propri cambiamenti di epoca”.  Tutto questo è verificabile in ogni componente del complesso sistema ecclesiale.Infine, adeguare se stessi e la comunità ecclesiale ai tempi nuovi, ha costituito la trama complessa che, in parte lo ha tormentato, e che egli ha vissuto senza sempre prendere   frontalmente -convinto come era che il tempo aggiusta molte cose e che bisogna saper aspettare i tempi- le questioni, ma dimostrando di capire le mutazioni e di suggerire un rimedio: vicinanza e dialogo, confronto e mai abbandono. Non sempre tutti hanno capito e non sono mancate alcune diserzioni proprio in seno a chi avrebbe potuto sostenere il cammino di tutti.Monsignor Dino De Antoni ha compreso la vocazione di Gorizia e della chiesa diocesana diventando testimone delle sue peculiarità e, allo stesso tempo, affiancandosi a quanti potevano avere ide e convinzioni per una azione continua e sollecita.  Una vocazione -quella della chiesa e del territorio del Goriziano- che, dopo gli anni novanta, ha avuto una diversa centralità e missione, ancora tutta da scoprire: quella di essere portatrice di un messaggio che coniuga insieme  le diversità senza perdere la propria identità. Una identità molteplice che niente vuole perdere della proprie peculiarità geografiche o culturali, per invece farsi portavoce di un mondo nel quale si può convivere insieme e diversi. È la prospettiva di un servizio episcopale, di un vescovo a misura del concilio e appunto degli anni del secondo millennio.