Architettura delle scelte

Il 3 marzo scorso, il Consiglio Regionale del Friuli Venezia Giulia ha approvato la legge 55 dal titolo “Istituzione del registro regionale per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT) e disposizioni per favorire la raccolta delle volontà di donazione degli organi e dei tessuti”. Senza entrare in considerazioni di tipo tecnico (riguardanti le problematiche inerenti le modalità di raccolta delle volontà personali su questi temi eticamente delicati), o di tipo giuridico (sull’opportunità di legiferare in questa materia a livello regionale, creando tra l’altro una disparità di trattamento tra cittadini italiani abitanti a poca distanza l’uno dall’altro), vorrei attirare l’attenzione sull’aspetto educativo che è sempre presente in una legge positiva – statale o regionale che sia. Lo faccio partendo dal concetto di “architettura delle scelte”, ovvero di ciò che costituisce il contesto nel quale effettuiamo le scelte, così com’è presentato nel libro di R. H. Thaler e C. R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile (2009). In estrema sintesi, si tratta dell’evidenza empirica del fatto che, cambiando di poco il contesto in cui vengono fatte le scelte (modificando ad esempio le opzioni di default, oppure presentando le percentuali delle scelte altrui), le decisioni delle persone si orientano diversamente. Il contesto in cui ci troviamo a dover decidere non è mai neutro, così come non lo è la presentazione di un prodotto, come sa benissimo chi si occupa di marketing. Il punto è quindi che una legge che parte dalla finalità condivisibile di garantire “il diritto all’autodeterminazione della persona nell’accettazione o rifiuto delle cure mediche per sé più appropriate in relazione a tutte le fasi della vita, ivi compresa quella terminale” (art. 1.2), finisce per presentare l’interesse del “paziente” come diverso, se non in contrasto, con quello del medico che lo cura. Se c’è il bisogno di raccogliere la mia volontà finché posso esprimerla, vuol dire che chi mi avrà in cura nel momento in cui non sarò cosciente non sarà in grado di capire o di fare ciò che è bene per me, o addirittura agirà in contrasto con il mio bene, magari servendo propri scopi particolari. Inoltre, il concetto di autodeterminazione non è realistico, se con esso si intende che le persone sono sempre in grado di scegliere ciò che è meglio per loro: dietro una scelta pienamente libera e consapevole, infatti, dev’esserci una conoscenza il più possibile ampia di ciò che si verrebbe a determinare con la propria scelta. Nella legge approvata nei giorni scorsi dal Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, non si trova neppure un accenno alla possibilità/necessità di una mediazione da parte del proprio medico di base o di un altro medico nella stesura delle proprie dichiarazioni anticipate di trattamento, aiuto che sarebbe indubbiamente necessario trattandosi di scelte che riguardano tematiche cliniche conosciute dai professionisti sanitari, ma ignote ai più. Manca, insomma, tutto ciò che riguarda il rapporto di fiducia da costruire (o meglio: da ricostruire) tra persona bisognosa di assistenza e personale sanitario. È questo che intendevo, all’inizio, scrivendo di un aspetto educativo della legge: se è l’ente pubblico stesso (Stato, Regione…) che imposta la questione delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario” dal punto di vista della sfiducia nei confronti di chi deve assistermi, non può meravigliare che nella nostra società vi sia una sfiducia diffusa nelle persone e nelle istituzioni. Diverso sarebbe stato invece presentare questa scelta come un’opportunità per far conoscere le proprie preferenze, i propri desideri, a chi è chiamato ad assistermi quando non posso esprimere la mia volontà; cambiando il “contesto”, le “DAT” potrebbero diventare occasione/opportunità per crescere in quello che si chiama l’alleanza terapeutica, tanto auspicata anche per i benefici tangibili che essa porta nel processo di guarigione.