Nassiriya: sono trascorsi vent’anni dalla strage

Sono passati 20 anni da quel 12 novembre 2003, quando in mattinata, un camion pieno di esplosivo esplose davanti alla base “Maestrale”, sede dell’unità di manovra del Reggimento MSU (Multinational Specialized Unit) composto in gran parte da carabinieri italiani, causando 19 vittime italiane: 12 carabinieri, 5 militari dell’esercito italiano, due civili.
La base Maestrale, assieme alla vicina base Libeccio, era la sede del Reggimento MSU, a guida italiana, impiegato da qualche mese nella operazione Antica Babilonia per il mantenimento della pace in Iraq.
Ventotto vittime in tutto (oltre ai militari rimasero uccisi anche nove civili del posto), la completa distruzione di base Maestrale, questo il bilancio.
In quei giorni l’Italia ha abbandonato divisioni, ostilità, divergenze e vedute, perché quei visi finora anonimi sono improvvisamente diventati famigliari a ciascuno, le loro storie normali sono entrate nelle case degli italiani e quei diciannove che mai avrebbero cercato “sogni di gloria” non sono diventati eroi o martiri, ma figli, fidanzati, fratelli, mariti, padri, idealmente, di tanti italiani.
Anche a Gorizia, dove la bandiera a mezz’asta della Caserma Cascino di via Trieste, sede del 13 Reggimento Carabinieri Friuli Venezia Giulia, segnalava una perdita grave: il Maresciallo Capo Daniele Ghione, il Brigadiere Ivan Ghitti, l’Appuntato Andrea Filippa appartenevano a questo reparto. Fu proprio Andrea Filippa a neutralizzare i due attentatori, impedendo che il camion entrasse nella base causando danni ben peggiori.
Non sono stati gli unici a morire cercando di costruire un mondo più giusto per mano di terroristi senza nome e senza bandiera, non solo in Iraq.
La data del 12 novembre non è rimasta un semplice anniversario di una tragedia ma nel tempo è diventata simbolo del ricordo di tutti i caduti delle Missioni Internazionali di Pace.
Tanti gli attentati, tante le storie i volti, grande il bisogno di unificare il dolore e il ricordo, scegliendo come ricorrenza quella dell’attentato a Nassirya, definito il più grave attacco alle forze italiane subìto topo la seconda guerra mondiale.
Così si esprimeva il card. Ruini durante la celebrazione delle esequie: “Non ci stancheremo di sforzarci di far loro capire che tutto l’impegno dell’Italia, compreso il suo coinvolgimento militare, è orientato a salvaguardare e a promuovere una convivenza umana in cui ci siano spazio e dignità per ogni popolo, cultura e religione. Questi primi anni del nuovo secolo e del nuovo millennio appaiono particolarmente duri, crudeli e tormentati. Troppe popolazioni inermi sono colpite”.
A 20 anni di distanza queste parole sono quanto mai attuali.
In primo luogo perché il contesto geopolitico mondiale non è sicuramente mutato lasciando sperare a un miglioramento, anzi nel tempo si è andata sempre più inasprendo quella terza guerra mondiale a pezzi menzionata da Papa Francesco quasi 10 anni fa nella sua visita a Redipuglia, in secondo luogo perché in questo contesto, l’apporto delle forze militari impiegate nei teatri operativi bellici per il ripristino della pace è stato e continua ad essere fondamentale.
Convivenza umana e dignità per ogni popolo: nelle parole del Cardinale lo scopo di ogni intervento militare oggi.
Non per interessi di potere o mire espansionistiche ma dando corpo a quella cooperazione internazionale consapevole che solo insieme si può estirpare la violenza atroce che impedisce ai popoli più deboli di crescere ed autodeterminarsi, ma consapevole anche che l’intervento militare può e deve avere come unico scopo quello del mantenimento e della ricerca della pace: con l’assistenza ai civili, istruendo le forze di polizia locali, aiutando nella ricostruzione morale e materiale di popolazioni distrutte.
Il Concilio Vaticano II, a metà di un secolo che ha visto il mondo intero dilaniato da due guerre mondiali e svariate dittature, a pochi mesi dal rischio della guerra nucleare che aveva ispirato a San Giovanni XXIII la Pacem in Terris, ha avuto il coraggio di dire che “La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una dispotica dominazione, ma viene con tutta esattezza definita a opera della giustizia” (Gaudium et Spes, 78), allontanando l’utopia del pacifismo che mette a rischio l’incolumità dei più deboli, ricordando ogni uomo è chiamato ad essere artigiano di pace e ancora: “Coloro poi che al servizio della patria esercitano la loro professione nelle file dell’esercito, si considerino anch’essi come servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli; se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace” (Gaudium et Spes, 79).
Davvero allora e senza retorica è possibile comprendere oggi la professione militare in uno stato democratico come un servizio alla collettività per la custodia della pace e sempre tutelando l’interesse del debole.
Ancora di più, è possibile comprendere cristianamente questa professione votata al prossimo come una delle possibili incarnazioni della beatitudine “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9), quindi anche via ordinaria alla santità, dove per santità si comprende la risposta di ogni battezzato a costruire il Regno nel quotidiano, anche esercitando rettamente la propria professione.
Ce lo ricorda spesso il Papa, la guerra è una follia, ed i primi che desiderano un mondo di pace sono proprio coloro che sono impegnati in prima linea a difenderla indossando una uniforme non per favorire contrapposizioni fra Stati, ma fra una cultura di vita ed una di morte. I volti, le storie, il sacrificio di questi uomini, unitamente al loro ricordo grato, possono ancora essere oggi monito per la costruzione di un mondo più giusto.
Christian Massaro

(Carabinieri in una missione di pace; foto Ministero della Difesa)