Friuli: quando l’orcolât si scosse…

Quarant’anni sono tanti e sono pochi, dipende da come si vede e si interpreta la reazione a un evento catastrofico quale, ad esempio, è stato il terremoto del Friuli. Questo evento e la reazione ad esso sono ancora un ricordo epico, di una grande battaglia per una vita nuova e radicolarmente rifondatrice da parte di chi le ha vissuto e che poi ha cercato di comunicarle alle nuove generazioni. Per queste al contrario terremoto e ricostruzione sono un fatto e un periodo che già è sbiadito, perché esse non esse non conoscono il passaggio fra il prima e il dopo del terremoto. A maggior ragione quarant’anni da questo evento sono tanti per chi vive fuori del Friuli, per chi vive situazioni di disastro da altri terremoti, per chi non pensa di valutare il cosiddetto “Modello Friuli” come “best practice” da cui partire per risolvere problemi simili.Ebbene l’occasione della ricorrenza ci permette di considerare in cosa è consistito il “Modello Friuli” e cosa esso ha prodotto, in Friuli e in regione. D’altra parte in Italia questa ricostruzione friulana è stata una dei pochi esempi in cui essa è stata rapida, efficace e sufficientemente efficiente, e poi si è trasformata in un cambiamento quasi radicale di un ambiente, di una comunità regionale, della cultura di un popolo.Tutto ciò possiamo fissarlo in alcuni punti essenziali.

Il “Modello Friuli”Il “Modello Friuli” è stato un modello unico, almeno per l’Italia, costruito nel tempo, e che ha avuto un ruolo molto positivo. Esso nasce dalla congiunzione di diversi attori e situazioni: (1) attribuzione di risorse copiose date dal centro nazionale e della regione Friuli Venezia Giulia; (2) una “regia” ferrea e quasi “indipendente” dal centro nazionale sotto la guida di un Commissario Straordinario (on. Giuseppe Zamberletti); (3) la costituzione di una “Segreteria Generale Straordinaria”; (4) la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia che ha approvato e attivato leggi copiosamente finanziate (soprattutto L.R. 17/1976, 30/1977, 63/1977) per gli interventi di ristrutturazione e di ricostruzione di un enorme numero di abitazioni ed edifici pubblici; (5) i comuni  (i 91 più colpiti) che sono stati coinvolti nella gestione della progettazione e nella gestione finanziaria.

La popolazioneLa risposta della popolazione, abituata al lavoro, al sacrificio, a realizzare obiettivi concreti, è stata immediata e costante. Così la popolazione: (1) ha accettato di essere mandata provvisoriamente a vivere nelle aree costiere; (2) ha accettato che venisse data la precedenza alla ricostruzione delle strutture produttive per i posti di lavoro e poi delle case e dei servizi per esse.

Gli interventi del volontariato esternoVi è stato un notevole coinvolgimento delle comunità esterne: (1) parrocchie italiane che si gemellavano con parrocchie friulane per dirottare risorse e lavoro diretto; (2) associazioni di volontariato con lavoro ed/od offerte; (3) associazioni e governi stranieri che finanziavano interventi pubblici in certi comuni. Circolavano poi storie come la seguente: in un comune di montagna popolato in gran da vecchi, veniva destinato il finanziamento da donatori canadesi per costruire asili nido e scuole materne. Tali interventi esterni sono stati molto importanti per abbreviare i tempi e risolvere bisogni che forse non si sarebbe riusciti a realizzare.

Il tempoIl “Modello Friuli” ha prodotto la ricostruzione del Friuli in “poco tempo”: ciò è stato molto importante, in quanto ha reso credibile il “Modello”. D’altra parte “poco tempo” significa dire che il grosso degli interventi è stato fatto in non più di cinque anni. Infatti di fronte agli iniziali 18000 alloggi distrutti e 75000 danneggiati, nel 1981, da quanto risulta da una ricerca svolta dal Consorzio Regionale degli IACP regionali, restavano 12648 famiglie in baracca o in alloggi in corso di ristrutturazione o ricostruzione, ma beneficiarie dei contributi previsti dalle leggi regionali 30 e 63 del 1977.

La modernizzazioneIl “Modello Friuli” ha significato la trasformazione radicale del Friuli in termini di modernizzazione. Ciò ha significato: (1) il cambiamento della economia da agricola a industriale, costituita da piccole imprese dedite ad attività da “Terza Italia”; (2) la valorizzazione di una pianificazione territoriale, in cui la gente si sposta dalle frazioni le cui abitazioni sono meno considerate dalla ricostruzione, ai centri dei comuni intorno cui si trasferiscono gli abitanti; (3) la sconfitta della emigrazione endemica per bisogno all’estero per avere un’emigrazione solo per scelta; (4) il rafforzamento e l’ammodernamento di una cultura friulana in senso lato con strutture pubbliche per l’istruzione come l’Università di Udine e i teatri, e con servizi autoctoni come gli ospedali.

Gli aspetti negativiNaturalmente non si può sottacere aspetti negativi, dovuti in particolare alla scarsa previsione degli effetti degli interventi. Tra questi ricordiamo: (1) il favorire il ritorno degli emigranti ha fatto sì che fossero inseriti tra i beneficiari delle L. R. 30 e 63/1977 anche gli emigrati che erano ben integrati all’estero pur conservando la proprietà di una casa (già malandata) in Friuli: ciò ha significato che molti di questi emigrati hanno ricostruito o ristrutturato la casa lasciandola però vuota; (2) l’impedire l’accesso alle dette leggi regionali di categorie sociali che non avevano anche solo il 10% di contributo per ristrutturare la casa. Citando ancora la ricerca del Consorzio Regionale IACP nel 1981 vi erano 5424 famiglie che abitavano ancora in baracca o perché poveri (nel senso detto sopra) o perché famiglie giovanili costituitesi dopo il terremoto (senza quindi potere accedere alle leggi 30 e 63), ma non mancavano anche famiglie che sdoppiavano artificialmente gli stati di famiglia per conservare la baracca come luogo per gli attrezzi; (3) il creare categorie professionali e imprese che poi con la conclusione della ricostruzione si trovarono senza lavoro e costrette a chiudere.

Il “Modello Friuli” come non “best practice”Nonostante gli aspetti sostanzialmente positivi, il “Modello Friuli” è stato poco seguito, e quindi non ha costituito una “best practice” per affrontare problemi analoghi. I terremoti italiani successivi infatti si sono collocati sulla scia delle ricostruzioni tradizionali; con lunghezze enormi di tempi, con enormi sprechi di risorse, con reti consistenti di corruzione, con scarso coinvolgimento della popolazione (rimasta più passiva che attiva).

L’ultima puntualizzazione è più una ipotesi, che assume i connotati del quesito. E cioè il “Modello Friuli” ha avuto successo per una felice congiunzione di fattori, compreso il fatto che l’Italia di allora era ancora presa dal modello di “welfare state” per il quale lo stato e le regioni davano molte risorse che indebitavano il pubblico a favore dell’arricchimento del privato delle famiglie e dei cittadini? Ma eravamo già entrati nel periodo in cui è cominciato ad accumularsi l’enorme debito pubblico che tuttora sopportiamo. L’interrogativo apre un altro filone di valutazione del successo solitario del “Modello Friuli”.

L’insostituibile opera dei volontari

La testimonianza di mons. Ruggero Dipiazza, parroco di S.Rocco in Gorizia, sulla mobilitazione immediata dei giovani che partirono per dare soccorso

Quella sera del 6 maggio 1976 tutta la Regione fu scossa da quel violento terremoto, non solo fisicamente, ma anche nell’animo, nel cuore, nella sensibilità. Subito decine e decine di uomini e donne si radunarono per andare a soccorrere le aree più ferite. Tra questi tanti volontari, molti anche dalla nostra città seguiti, nei giorni e mesi successivi, dalla catena di solidarietà organizzata a livello diocesano.Abbiamo incontrato don Ruggero Dipiazza, parroco di San Rocco, che ha raccontato per noi i suoi ricordi legati a quella notte e di come subito ci si mosse per fornire aiuto ai tanti in difficoltà.“Ricordo che quella sera ero in chiesa, per un incontro con i giovani che solitamente si svolge nel mese di maggio, quando arrivarono alcuni dei ragazzi più grandi che frequentavano la parrocchia – Mattia, Emilio, Bruno e Mauro -: avevano appena ricevuto la notizia della tragedia che aveva colpito la Carnia e decisero di partire immediatamente.Si organizzarono con un furgone, messo a disposizione dalla ditta dove uno di loro, Emilio, lavorava e andarono direttamente a Gemona. Qui furono coinvolti nel cercare le persone sepolte sotto le macerie, trovarono anche un superstite ma le sue condizioni erano talmente compromesse che, purtroppo, spirò poco dopo. Per questo gruppo di ragazzi, che si misero subito a disposizione e furono molto coinvolti, era importante esserci, non mancare in un impegno vissuto certamente con la spregiudicatezza della gioventù, ma con grande generosità. Due giorni dopo, rientrati a Gorizia, ripresero la strada verso la Carnia portando con sé aiuti alimentari, in modo da dare supporto anche da questo punto di vista. Inoltre, anche altri ragazzi di San Rocco e delle altre parrocchie si misero a disposizione per coprire i turni presso gli spazi organizzati dalla Caritas al Magazzino Viveri e Magazzino Vestiti, sempre aperti a disposizione dei bisognosi del periodo.Come parrocchia entrammo nel “giro” di aiuto che la Diocesi stessa mise in campo, all’inizio un po’ a “tentoni”, perché la situazione dei paesi colpiti era davvero complicata e perché i gemellaggi – nati su proposta di monsignor Battisti alla Caritas Italiana – non erano attuabili nell’immediato e non erano ancora molto conosciuti come ipotesi di lavoro comune. Ci siamo quindi un po’ “inventati”, secondo uno spirito che sicuramente articolava i bisogni e le risorse.Il nostro intervento, come parrocchia, avvenne l’estate successiva, quando ci recammo in Val Raccolana, ai Piani di Saletto, dove i nostri ragazzi tennero un doposcuola, per fornire un servizio e un momento di aggregazione dedicato ai più piccoli. Per quanto mi riguarda, mi attivai collaborando con Giuseppe dei Salesiani – un fratello laico che per lungo tempo ha collaborato con loro curando anche l’orto -: in quel frangente fu uomo di un coraggio e di una generosità straordinaria. Mettemmo a disposizione risorse – quintali di patate da seme – per rifornire la Val di Resia ma non solo – rese disponibili grazie a un’importante donazione (5 milioni di lire dell’epoca) di un parrocchiano generoso che ancora oggi va ringraziato. Questo favorì la ripresa del lavoro nei campi da parte di molte famiglie che avevano nell’agricoltura la principale forma di reddito; per loro significò realmente un nuovo avvio.Come parrocchia abbiamo anche aiutato fornendo materiali per ricostruire una casa nell’area del Canal del Ferro. La nostra attività si svolse principalmente all’interno di quell’area che va da Stazione di Carnia in su, fino grossomodo a Malborghetto.Negli anni successivi si scelse di rimanere sul territorio con delle attività parrocchiali, acquistando uno stabile terremotato e ricostruendolo con i fondi statali, facendolo diventare la Casa per Ferie che ancora oggi usiamo. Rimanemmo vicini in particolare alla parrocchia di Malborghetto, donando i banchi per la chiesa, ricostruendo la scala che porta alla cantoria e recuperando le opere d’arte presenti nell’edificio. Una presenza, la nostra, continua, discreta, mai invasiva ma sempre attenta ai bisogni dell’ambiente.Oltre a ciò che effettuammo direttamente sul luogo più colpito, fummo attivi anche a Gorizia con l’organizzazione – per coloro che erano particolarmente fragili e spaventati o che vivevano in strutture non sicure – di una tendopoli presso il campo sportivo del Borgo, operativa già dal giorno successivo al sisma.Infine è da sottolineare come l’emergenza non durò tantissimo: il terremoto fu certamente una sciagura per tutto il Friuli, con molti morti, ma il recupero fu rapido. L’impostazione – che il Vescovo aveva proposto fin dall’inizio – prevedeva la riorganizzazione prima del lavoro, poi delle case, poi delle chiese. La linea era molto precisa e puntava a non far “scappare” le persone da quei luoghi: la certezza di un posto di lavoro, garantito dalla ricostruzione veloce dei capannoni delle fabbriche, consentì alle persone di pensare al futuro in termini positivi.