Amatrice: la fede aiuta a tenere viva la speranza

Alle 3.36 del 24 agosto 2016 un terremoto con magnitudo 6.0 colpiva l’Italia centrale provocando quasi 300 vittime. A due anni da quell’avvenimento, il Consiglio esecutivo della Federazione italiana dei settimanali cattolici – su invito del vescovo della diocesi di Rieti, monsignor Domenico Pompili – ha visitato Amatrice, cittadina in cui si registrò il maggior numero di vittimo e che subì anche ingenti danni al proprio patrimonio culturale. A fare da guida al gruppo ed a illustrare la realtà umana e sociale che questa terra oggi vive e le prospettive di una ricostruzione in cui non mancano i ritardi, è stato David Fabrizi direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali e redattore del periodico “Frontiera” della chiesa di Rieti.

David, ci racconti quel 24 agosto 2016? Che immagini hai di quei giorni?Ero sveglio al momento del terremoto e mi resi subito conto che era successo qualcosa di grave. Scoperto l’epicentro, per prima cosa ho contattato i parroci sul territorio di Amatrice, Accumoli e degli altri paesi per sentire se stavano bene e per avere da loro notizie di prima mano. Quelli con cui sono riuscito a parlare erano tutti già impegnati nell’aiutare le persone che avevano vicino, ma in quei primi tragici minuti era difficile rendersi conto della dimensione del disastro. Cosa fosse accaduto l’ho visto con i miei occhi nel primo pomeriggio. Ho raggiunto Amatrice insieme al vescovo e mi sono trovato nel mezzo di un paesaggio irriconoscibile. Ricordo lo sforzo di professionisti e volontari nel cercare di trovare e salvare i vivi sotto le macerie. Ricordo i morti messi in fila per il riconoscimento. Ho davanti agli occhi il volto di una ragazzina e di un bambino travolti dalla loro casa. Provai un dolore difficile da dimenticare e quasi un senso di inadeguatezza, respinto dal bisogno di rendermi utile come potevo.

La ricostruzione. A che punto siamo? Perché tanti ritardi? Ci sono ancora sfollati?La ricostruzione semplicemente ancora non c’è. La popolazione vive nelle aree Sae (Soluzioni Abitative di Emergenza) e sono stati ripristinati i servizi essenziali, ma la ricostruzione è un’altra cosa. Bisogna riconoscere che la situazione è molto complicata: parliamo di luoghi di montagna non facili da raggiungere. Lo si è visto anche durante l’emergenza, ma lo Stato è comunque riuscito a fare tutto il necessario grazie agli uomini della Protezione Civile, delle Forze dell’Ordine, a uno straordinario volontariato e anche alla sinergia con la Chiesa locale. Oggi, dopo i necessari abbattimenti, siamo nella fase di rimozione delle macerie: i tempi sono stati lunghi, ma non ricordo giorni in cui non si sia lavorato. In tutti questi mesi si è però parlato poco di come e dove ricostruire: il timore è che passata l’emergenza manchi un progetto organico. Rifare il paese “com’era e dov’era”, non credo sarà possibile. Tolto “l’identico”, il problema sarà di ricostruire qualcosa di “autentico”. Ma su questo mi pare si discuta poco.

La sensazione è che l’Italia si sia dimenticata del terremoto di due anni fa, dei morti, delle distruzioni. Tu che motivazione dai a tutto ciò?Non credo che l’Italia abbia dimenticato i morti e la popolazione di Accumoli e Amatrice. Il filo di solidarietà nato dopo il terremoto non si è mai interrotto. Ancora oggi ci sono manifestazioni, raccolte fondi e iniziative in favore dei territori colpiti dal sisma. Per fortuna il cuore della gente segue una logica diversa da quella dei media. Almeno dei più grandi, perché le piccole testate locali di tutto lo Stivale continuano a tenere traccia di questa generosità e di questa amicizia, del tessuto di relazioni nato sull’onda della solidarietà.

Che ruolo ha svolto la Chiesa reatina in questi due anni e quali iniziative ha messo in campo per la ricostruzione materiale e sociale delle persone? La Chiesa ha svolto un ruolo determinante dal punto di vista materiale e umano. Attraverso i sacerdoti, i religiosi e la Caritas. Nella fase dell’emergenza la Caritas ha provveduto alla fornitura di qualunque tipo di aiuto – cibo, vestiti, attrezzature, soluzioni abitative. Ha guardato tanto ai singoli quanto alle comunità nel loro insieme, ad esempio costruendo centri pastorali che sostituissero le chiese e i poli aggregativi distrutti o inagibili. Non si è perso di vista il problema del lavoro: la ricostruzione avrà senso solo se le persone potranno continuare a vivere e lavorare sul posto. Di conseguenza sono stati forniti aiuti a tante imprese attive sul territorio. La diocesi ha investito in favore della popolazione terremotata circa quattro milioni di euro e credo e lo sforzo non è destinato a esaurirsi. Al contrario delle realtà del volontariato e di alcuni apparati pubblici, la Chiesa non ha ritratto la propria presenza con lo scemare dell’emergenza, ma rimane accanto alle persone: dai primi momenti a oggi tante cose sono cambiate, ma non il bisogno di vicinanza, di contatti umani. La fede aiuta a tenere viva la speranza, a ridare vita, che è di più che ricostruire soltanto. A margine di questo non va dimenticato l’enorme impegno nella messa in sicurezza degli edifici di culto e nel recupero dei beni culturali custoditi dalle chiese.

Ci stiamo avvicinando al Sinodo dei giovani. Ci sarà spazio ancora per loro in paesi come Amatrice o Accumuli?Amatrice e Accumoli vivevano un forte spopolamento già prima del terremoto. Ma il sisma ha posto in modo forte il problema della presenza dei giovani nella più ampia questione dell’Italia centrale. Di sicuro le montagne dell’Appennino riservano tante opportunità e uno stile di vita desiderato da tanti, più lento e vicino alla natura. E paradossalmente la tecnologia oggi aiuterebbe a rimanere in questi luoghi, grazie alle tante possibilità offerte della rete. Ci vogliono però anche i servizi materiali: le strade innanzitutto e non solo quelle digitali, che sarebbero comunque benvenute, ma anche gli ospedali, le scuole, i trasporti pubblici, i servizi culturali… La logica dei numeri ha decimato queste presenze alimentando una fuga viziosa verso le grandi città. Per fare spazio ai giovani bisogna rovesciare questo atteggiamento.

Puoi raccontarci l’esperienza della Casa del futuro…Casa del Futuro è un po’ il cuore del progetto della diocesi per i comuni colpiti dal terremoto. Probabilmente sarà la prima vera opera di ricostruzione materiale ad Amatrice e verrà collocata nel padiglione principale del complesso “Don Minozzi”. L’idea originaria era quella di non disperdere la ricca esperienza di campi scuola parrocchiali che soprattutto da Roma venivano svolti tra i Monti della Laga. Il progetto attuale collega questa esigenza alla creazione di un centro internazionale di studi ambientali, legato alla nascita delle Comunità Laudato si’ promosse in sinergia da Chiesa di Rieti e Slow Food, e a un polo museale costruito con parte dell’incredibile patrimonio artistico recuperato dalle chiese colpite dal sisma. Giovani, comprensione della terra e solide radici culturali e spirituali come chiave per guardare al futuro.a cura di Mauro Ungaro