Mons. Sedej e la Chiesa goriziana di fronte alla Grande guerra

28 giugno 1914, attentato di Sarajevo. Nel giro di pochi mesi scoppiò tra Austria e Serbia la guerra che a breve avrebbe coinvolto tutta l’Europa. Il 2 agosto dello stesso anno l’anziano pontefice Pio X rivolse al mondo cattolico un’esortazione apostolica con un forte invito alla preghiera affinché cessasse il conflitto1.Parole ben più forti sarebbero state pronunciate dal suo successore, Benedetto XV, che, com’è noto, nel 1917 definì il conflitto una “inutile strage”2. Per la prima volta davanti ad un conflitto la Chiesa cattolica si pose al di sopra delle forze in campo ed alzò con decisione la propria voce per sostenere il cessate il fuoco; non solo una generica condanna della guerra, ma un tentativo, anche diplomatico, di favorire la pace. Atto rivoluzionario quello di Benedetto XV. Tra i cattolici era ancora attuale il concetto di guerra giusta e gli episcopati degli stati coinvolti sostenevano, in genere, le ragioni del proprio governo, presentando la partecipazione alla guerra come un dovere per il buon cristiano e proponendo, a sostegno di ciò, chiavi di lettura religiose e teologiche.Anche i documenti pubblici dell’episcopato austriaco non si discostavano da questi indirizzi: esemplificativa la lettera pastorale comune del gennaio del 1915 nella quale i vescovi invocavano la consacrazione dell’Austria al Sacro Cuore di Gesù. Il parallelo dichiarato era con quanto successo in Tirolo davanti all’invasione napoleonica, quando i tirolesi, consacrandosi al S. Cuore, respinsero l’avanzata dei nemici della fede. Prontamente a Gorizia l’arcivescovo Sedej consacrò l’arcidiocesi al S. Cuore.Sempre a gennaio pubblicò la sua prima lettera pastorale del tempo di guerra3. Pur paragonando la guerra ad “un vero uragano” che “s’è scatenato improvviso sull’Europa intera, quale non si vide ancora dacché il mondo è mondo”, il presule goriziano cercava di fornire una giustificazione non solo politica della guerra, toccando temi che avrebbero dovuto unire i fedeli, legando la difesa dell’Austria a quella della Chiesa: in quanto guerra contro due stati ortodossi era questa “una guerra per la conservazione della nostra fede”. Inoltre, scriveva Sedej, “la guerra talvolta è necessaria ed inevitabile”: uno Stato “è in obbligo di difendere i propri diritti” se minacciato apertamente, usando anche la forza. Per questo, guardando alle Sacre Scritture e alla dottrina della Chiesa, secondo Sedej “la presente guerra dichiarata dal nostro Augusto Sovrano è giusta ed equa”. Inoltre, riprendendo un tema già proposto in altri documenti4, egli presentava la guerra come un giudizio divino intervenuto provvidenzialmente a correggere le pericolose sbandate dei tempi moderni, come l’ira di Dio che si scagliava contro la modernità malvagia. Tra le varie nefandezze enumerate vi erano pure le “fanatiche intolleranze nazionali”, avvertite come pericolose deviazioni dal principio di autorità insegnato dalla stessa Chiesa, oltre che come eversive per l’assetto istituzionale dell’epoca. Sedej si rivolgeva ai fedeli ed al clero conscio che potevano insorgere letture contrastanti del conflitto: dalla presenza nel mondo sloveno di elementi che potevano nutrire simpatie panslaviste fino a quanti, tra gli italiani, esprimevano posizioni irredentiste e guardavano con attenzione alla neutralità non certo disinteressata del Regno d’Italia.Estremismi che non avevano grande seguito nel mondo cattolico goriziano, dove il lealismo dinastico aveva solide basi, ma pur sempre possibili di catturare consenso. A gennaio del ’15 il fronte non lambiva ancora Gorizia, ma molti erano gli uomini richiamati alle armi e partiti come soldati dell’esercito austro-ungarico. La situazione ovviamente cambiò radicalmente alla fine di maggio, con l’ingresso in guerra dell’Italia contro l’Austria.Mons. Sedej nei concitati momenti precedenti l’arrivo delle truppe italiane nel Goriziano diramò una circolare al clero diocesano (21 maggio 1915) nella quale indicava ai sacerdoti il contegno da tenere “nel caso che la guerra si porti nella nostra amatissima patria”5. Il presule richiamava i sacerdoti all’obbligo di rimanere nelle proprie sedi, poiché nulla li sollevava dall’obbligo di residenza.Rimanere in sede era anche nelle sue intenzioni; ma alla conta dei fatti Sedej si trattenne poco a Gorizia: motivi di opportunità spinsero le autorità militari austriache a consigliarne la partenza dalla città pericolosamente bombardata. Egli si trasferì in alcune località dell’interno, prima di trovare, a partire dal dicembre del 1915, una residenza stabile nel monastero cistercense di Sti¤na, presso Lubiana, dove, grazie anche all’intervento di mons. Faidutti, riuscì a raccogliere anche una parte dei seminaristi.Il clero diocesano recepì le indicazioni del proprio vescovo. Una parte del giovane clero ed i sacerdoti in cura d’anime nei paesi evacuati a fine maggio seguirono la popolazione diretta verso i campi profughi che rapidamente si organizzarono all’interno della Monarchia e nei quali affluirono circa 80.000 fuggiaschi; tutti gli altri preti (salvo i pochi internati dalle stesse autorità austriache) rimasero nelle loro sedi ad attendere gli occupanti italiani nei quali i più riconoscevano il nemico invasore. Pochi sacerdoti di schietti sentimenti italiani non nascosero la propria esultanza all’arrivo delle truppe sabaude.L’impatto del clero locale con le truppe d’occupazione assunse però toni drammatici. L’esercito italiano al suo arrivo operò una pesante serie di internamenti cui furono oggetto gran parte dei sacerdoti presenti sul territorio, arrestati come nemici e trasferiti con la forza in diverse località italiane. Atto questo avvertito dal clero come di gratuita ed ingiusta violenza6.Presso la popolazione civile rimasta, priva di gran parte dei legittimi pastori, prestarono ben presto la propria cura pastorale molti cappellani militari dell’esercito italiano. Per i territori occupati, dopo una serie di trattative diplomatiche, vennero istituite le due vicarie foranee di Cormons e Caporetto poste alle dipendenze dirette della Santa Sede. La vigilanza venne delegata a Mons. Angelo Bartolomasi, Ordinario castrense dell’esercito italiano. In generale la presenza dei reggenti militari italiani nelle parrocchie rimaste prive dei loro legittimi rettori, oltre che una misura strettamente pastorale, va considerata anche un tentativo da parte dei comandi militari di instillare nelle popolazioni locali l’amore per l’Italia. E questo si nota sia nelle parrocchie italiane che in quelle slovene, nelle quali si cercava di introdurre elementi di “italianità”, anche solo linguistica.Il quadro che si presentava agli occhi del presule goriziano era quindi a tinte fosche. Le preoccupazioni per il clero internato si sommavano alle difficoltà di riuscire a guidare un gregge che viveva in una condizione di tragica precarietà, diviso tra la pericolosa vicinanza al fronte e la profuganza. Le aspettative che emergono dai documenti pubblici di mons. Sedej durante la guerra sono chiare.Nella lettera pastorale per la Quaresima del 1916, che non credo giunse mai a destinazione oltre il fronte, il presule accennava più volte alla “parte dell’Arcidiocesi oltre l’Isonzo nelle mani dell’ingordo e perfido nemico”. Nella stessa lettera egli invocava i santi protettori dell’Arcidiocesi affinché venisse “restituita la parte della nostra Arcidiocesi invasa dal nemico”, auspicando che il conflitto si risolvesse positivamente per chi era legittimato a governare su queste terre dal dritto storico e da Dio. Alla fine di ottobre del 1917 l’offensiva lanciata a Caporetto dall’esercito austriaco costrinse le truppe italiane a ritirarsi. La nuova linea si attestò sul Piave.Così, dopo più di due anni, il Goriziano ritrovava la sua unità territoriale e mons. Sedej vedeva così riunita anche la sua diocesi.Nel messaggio inviato il 4 dicembre all’arcidiocesi egli esprimeva un sincero giubilo per l’avvenuta riconquista: “La nostra bella patria goriziana e la ben soleggiata città di Gorizia, nostra diletta residenza, fu finalmente liberata dalle mani del nemico traditore e di nuovo riunita all’Austria. […] Forte è il braccio di Dio e nulla può resistergli, allorquando si accinge a voler liberare il suo popolo”.La sconfitta momentanea dell’Italia era interpretata dal presule come un segno divino in favore della causa della cattolica Austria: “Si, imprudente mostrossi il governo italiano, il quale già da tempo infierisce contro la chiesa e la spoglia dei suoi beni, perseguita i religiosi, tiene prigioniero nel Vaticano il Santo Padre e bandisce dalle scuole il crocifisso e la religione”.La momentanea rioccupazione austriaca di Gorizia e del Friuli permise a Mons. Sedej di rientrare in città, ma solo nel marzo del 1918. Però la mancanza di preti (i reggenti militari avevano seguito le truppe in ritirata) esigeva nuove nomine provvisorie, risolte utilizzando parte del clero che aveva seguito le popolazioni nella profuganza, nonché alcuni sacerdoti delle diocesi vicine, soprattutto di Udine e Trieste.

La nuova situazione spinse i molti preti internati in Italia a chiedere, attraverso la Santa Sede, il permesso di rientrare in diocesi. Iniziava così il lungo percorso che avrebbe portato con molte difficoltà al rientro dei sacerdoti goriziani e che si sarebbe completato solo dopo oltre un anno dalla fine delle ostilità.L’esito finale del conflitto fu ben diverso da quello auspicato dall’Arcivescovo. Nel novembre 1918 egli fu spettatore, in una Gorizia ancora semidistrutta dalla guerra, del ritorno definitivo delle truppe italiane. Cercò subito di dare indicazioni al clero.Nel primo di questi messaggi7, Sedej richiamava i sacerdoti al dovere di contrastare ogni genere di disordine, e, soprattutto, di non trasformare le chiese in luoghi di propaganda politica. Era ben conscio che ogni iniziativa pubblica del clero diocesano avrebbe potuto essere interpretata come politicamente ostile dagli occupanti.Per lui, come per gran parte del suo clero, era difficile accettare quali vincitori quegli italiani che più volte aveva stigmatizzato come nemici non solo dell’Austria ma anche del cattolicesimo. Il castigo di Dio invocato durante la guerra contro l’Italia sembrava ora rivolgersi contro gli sconfitti: era una lettura dell’esito della guerra che egli stesso avrebbe proposto nella sua prima lettera pastorale del dopoguerra, apostrofando l’Austria come “il governo che ipocritamente ostentava il cattolicismo”8. L’evolversi della situazione politica, ed in primo luogo il carattere stabile dell’occupazione italiana del Goriziano, impose al presule di fornire già alla fine di novembre indicazioni ancor più esplicite, volte a suggerire al clero un modus operandi chiaro se non di accettazione perlomeno capace di garantire una convivenza con il nuovo ordine politico, fatte salve le prerogative proprie della Chiesa.Mons. Sedej era ben conscio non solo che la sua Chiesa si trovava in una situazione di debolezza di fronte alle autorità che guardavano con diffidenza il clero locale, ma anche dell’ascendente che essa ancora esercitava sulle popolazioni, dello scontento che serpeggiava nel clero e delle conseguenze che avrebbe potuto provocare ogni suo gesto meno che cauto.Con decisione ribadiva l’ordine di tenere la politica al di fuori della chiesa, in un momento in cui accettare o meno l’esito del conflitto e l’autorità italiana su Gorizia era una scelta politica.L’Arcivescovo si preoccupava dunque del rapporto del clero con le nuove autorità e soprattutto cercava di salvaguardare per il clero quella libertà d’azione necessaria per mantenere il proprio ascendente presso la popolazione: di qui a poco sarebbe stato evidente che non sarebbe stato più possibile ripristinare le organizzazioni politiche ed economiche che avevano contraddistinto il recente passato.Un atteggiamento di accettazione dello stato delle cose che doveva prima di tutto favorire il ritorno alla normalità nella vita religiosa, una normalità che comprendeva quindi il rientro dei sacerdoti internati (assieme al diritto del vescovo di operare liberamente le nomine nelle cure d’anime) oltre alla possibilità di usare liberamente le lingue presenti all’interno della diocesi. Come scriveva nella sua lettera pastorale del 1919, nel dopoguerra tutto andava ricostruito: c’era bisogno di un nuovo impegno e di una nuova unità, che le divisioni (anche nazionali) all’interno del mondo cattolico locale rendevano non certo agevole: “Una grande epoca è sorta dopo questa guerra mondiale e quindi pur grandi compiti. Ma per poter raggiungerli è necessaria la cooperazione dei popoli. Uniamoci ed organizziamoci, nè restiamo addietro dei nemici della nostra fede e della Chiesa. Istruiamoci bene sui nostri diritti, adempiamo i nostri doveri verso lo stato, abbiamo cura non solo del bene privato, ma ancora del bene pubblico, e sappiamo pure sacrificare il nostro utile, al benessere della Chiesa, della nazione e dello stato”9. Gli anni a seguire sarebbero stati segnati però da nuove difficoltà e da prove pesanti per la Chiesa goriziana.

Note1 Esortazione apostolica ai cattolici di tutto il mondo “Dum Europa” del 2 agosto 1914.2 Esortazione apostolica ai Capi delle nazioni belligeranti del 1 agosto 1917.3 Lettera pastorale del 18 gennaio 1915.4 Lettera al clero del 21 agosto 1914.5 “Casu quo bellum patriae nostrae amatissimae inferretur”.6 C. Medeot, Storie di preti isontini internati nel 1915, Gorizia 1969.7 Lettera al clero del 4 novembre 1918.8 Lettera pastorale del 9 febbraio 1919.9 Lettera pastorale del 9 febbraio 1919.

I contenuti di questo articolo sono una riduzione e rielaborazione di quanto scritto nel volume scritto da Ivan Portelli Pastore dei suoi popoli. Mons. Sedej e l’Arcidiocesi di Gorizia nel primo dopoguerra, Ronchi dei Legionari 2005, al quale si rimanda per qualsiasi approfondimento, anche di carattere bibliografico.