Verso una pena alternativa – Gocce di Carità

Negli scorsi giorni una delegazione della Caritas diocesana di Gorizia ha assistito a Verona al convegno “Esodo, non solo carcere. Misure alternative, formazione, lavoro: 10 anni di inclusione sociale”, momento di riflessione sul decennale del Progetto Esodo, promosso dalle diocesi di Verona, Vicenza e Belluno-Feltre e sostenuto da Fondazione Cariverona, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Verona, Ufficio di Esecuzione Penale Esterna e Provveditorato Regionale per l’Amministrazione Penitenziaria del triveneto.Il Progetto ha dato risultati molto positivi e incoraggianti: grazie alle sue attività inclusive infatti ha fatto registrare una netta caduta della recidività al delinquere e ha permesso quasi 1.800 inserimenti lavorativi e più di 2.200 percorsi di formazione professionalizzante.L’incontro ha suscitato la riflessione sulla situazione locale, in particolar modo del carcere di Gorizia. Quali attività sono presenti, affinché la pena non sia solo detentiva ma anche educativa? Che prospettive per chi ha scontato la sua pena? Ne abbiamo parlato con don Paolo Zuttion, cappellano presso la Casa Circondariale di Gorizia.

Don Paolo, la pandemia ha dato lo stop a tutte le attività presenti nelle carceri, non potendo accedere personale esterno. Ora che le cose sono migliorate, che situazione si presenta nel carcere cittadino per quanto riguarda le attività del volontariato?Sostanzialmente fino a 15 giorni fa le attività proposte dal volontariato all’interno della struttura erano state tutte fermate, sono stati due anni di stand by. Per fortuna durante questo tempo i volontari – che provengono da Rinnovamento nello Spirito e da alcune parrocchie – hanno continuato a mantenersi in contatto e legati anche attraverso un gruppo che abbiamo su Whatsapp.Ora si è potuta riprendere la distribuzione del vestiario e dei prodotti per l’igiene, che raccogliamo solitamente a Natale in città e poi distribuiamo durante il corso dell’anno. Quando non era possibile entrare nella struttura, ero chiamato a fare questo servizio; ora, grazie alla riapertura, ho la grande possibilità di essere aiutato dai volontari. A livello di animazione non è ancora stato possibile riprendere le liturgie ma ritorneranno ben presto come avveniva nel periodo pre-Covid.Tra i volontari c’è ora il desiderio, da parte di un gruppetto, di creare un Centro di Ascolto, per rilevare, porsi in ascolto appunto delle problematiche, delle preoccupazioni. C’è già una volontaria che lo fa ma in maniera autonoma, vorremmo dare a questo servizio una forma più strutturata.

Per quanto riguarda poi le attività all’interno del carcere? Veniva proposto il teatro sociale, sarà ancora possibile?Il teatro sociale verrà riproposto, il percorso ripartirà nei prossimi mesi. Il teatro sociale ha una forte funzione pedagogica per i carcerati, aiutandoli in qualche modo a “rientrare” in sé stessi e mettendo in movimento molte dinamiche. Questo tipo di teatro è svolto nel carcere di Gorizia dalla compagnia Fierascena, con cui da tempo la Caritas diocesana collabora.Oltre a rappresentare una terapia personale per chi vi partecipa, ha poi la grande funzione, il grande compito, di portare il territorio nel carcere: in passato si sono svolte rappresentazioni che hanno portato anche 200 spettatori all’interno della struttura carceraria; allo stesso tempo porta il carcere fuori, lo apre sul territorio, aiuta a farlo conoscere ospitandolo nei teatri, come avvenuto ad esempio al Teatro Verdi che ha accolto rappresentazioni proposte da compagnie composte da detenuti o ex detenuti e che hanno richiamato molti spettatori.

Guardando ai passi da compiere ora, cosa manca a Gorizia per offrire una pena che sia formativa?Proprio al convegno sul Progetto Esodo la dottoressa Lucia Castellano del Ministero della Giustizia, ha parlato della riforma della Giustizia; punto fondamentale è che, secondo questa nuova visione, il carcere diventerà l’estrema ratio in fase di giudizio. Ora la situazione è ribaltata: una persona va in carcere e poi, se ha una buona condotta, può avere la possibilità di godere delle misure alternative. Con la riforma avverrebbe quindi il contrario: per pene fino a 4 anni si prevede la possibilità che il giudice, invece di condannare alla detenzione, possa scegliere la pena alternativa e rieducativa all’esterno del carcere in strutture che garantiscano un percorso. Questo è un cambiamento radicale, soprattutto per il carcere di Gorizia che ospita per la maggioranza detenuti con pene sotto i 4 anni.Il territorio è così chiamato a prepararsi per un’accoglienza che preveda queste misure alternative e il lavoro – in primis come Chiesa – da svolgere in prospettiva in questi anni, è quello di far nascere nuove realtà e possibilità, soprattutto qui a Gorizia dove mancano organismi che si occupino di questo.Un possibile progetto – che nasce da don Alberto De Nadai, uno degli “storici” operatori del carcere, che se ne occupa da più di 50 anni come volontario – è la sistemazione di un piano di una palazzina di proprietà del Comune, situata proprio accanto al carcere, come luogo di accoglienza per le famiglie che vengono a visitare i carcerati: molte vengono da lontano e ora sono costrette ad attendere il proprio turno all’esterno, dove non c’è né spazio né una tettoia, sotto la pioggia o il sole cocente. Questa casa di accoglienza ha bisogno però di essere gestita, quindi l’idea – che nascerà spero tra poco – è di realizzare un’associazione di “amici” dei detenuti, alla quale possano partecipare anche ex detenuti; quest’associazione, oltre a gestire questo luogo, potrebbe avere anche un’operatività nel ricercare lavoro per chi terminerà la pena, uno dei grandi problemi attuali, oppure ancora potrà occuparsi della ricerca di strutture o appartamenti dove poter collocare queste persone. È un lavoro sul territorio che in parte era iniziato con il progetto Disma della Caritas diocesana, concluso negli scorsi mesi, che vogliamo portare avanti perché rappresenta l’attenzione dell’intero territorio all’accoglienza di queste persone, appunto anche secondo i dettami della nuova riforma della Giustizia.

Don Paolo, cosa significa per lei essere cappellano del carcere?Significa prendersi a cuore la situazione di tante persone e questo non significa soltanto ascoltare le situazioni di chi si trova in carcere ma anche intessere relazioni con le famiglie: a volte sono persone anziane, che si trovano un figlio in carcere e magari non possono nemmeno venire a trovarlo perché non ne hanno la possibilità; oppure situazioni di sofferenza incredibile da parte della famiglia per questo suo membro incarcerato.Essere cappellano significa anche mettersi alla ricerca di opportunità lavorative, abitative, per chi conclude la pena o può usufruire delle misure alternative, ed è una richiesta costante – anche se questo non dovrebbe essere propriamente il mio compito, lo faccio come supplenza; motivo per cui stiamo cercando di costruire una realtà che operi in questo senso -.Il mio compito primo è quello di essere accanto alle persone, di portare la Parola di Dio e la consolazione che viene dal Signore. Spesso dal confronto con loro, magari durante o al termine della Messa, emergono riflessioni importanti: è lì che sento di rispondere a quello che è il mio mandato.