Uno “strumento umano” a servizio della Chiesa

Con Jean – Baptiste Karogoya sta per fare rientro nella sua terra d’origine, il Rwanda, dopo ben 30 anni di presenza nel nostro Paese.Prete diocesano della diocesi di Nyundo, si trovava in Italia per motivi di studio quando scoppiò la terribile guerra del 1994. Diverse vicissitudini lo hanno portato successivamente a trattenersi nel nostro Paese, dove ha operato soprattutto a servizio della Pastorale della Salute in Vaticano per oltre 20 anni.Grande amico della nostra diocesi e della parrocchia di Sant’Ambrogio a Monfalcone, dove ha trascorso un periodo come ospite durante i suoi anni di studio, lo abbiamo incontrato per un saluto prima della sua partenza verso un Paese che oggi è pieno di fiducia e ambizioni per il futuro.

Padre, le vicissitudini che l’hanno portata a fermarsi nel nostro Paese sono molto particolari. Può raccontarcele?Le circostanze che mi hanno costretto a fermarmi in Italia sono varie e complesse, ma tutte riconducibili alla guerra che ha devastato il mio paese, il Rwanda, e come sappiamo culminò nel genocidio dei Tutsi rwandesi nell’aprile 1994. 27 anni dopo quell’orrendo eccidio , le immagini scorrono ancora vivissime nelle memoria e si prova ancora difficoltà a raccontare l’accaduto.Il motivo è semplice: quelli eventi terribili, li ho seguito da lontano, come tutti, riportati dai media. La differenza sta, forse, nella sensibilità con la quale li seguivo, l’analisi che ne facevo e la comprensione del quadro generale nel quale tutto si svolgeva.

Come mai la decisione poi di rimanere proprio in Italia e non in qualche altra nazione? Cosa le ha fatto dire “ok, mi fermo qui”?La decisione di fermarmi in Italia era come quasi obbligata. C’ero già dal 1991 per gli studi.Conoscevo la comunità parrocchiale di Sant’Ambrogio in Monfalcone in quanto ci avevo passato due periodi estivi quando i collegi pontifici sono chiusi per vacanza.Avevo conosciuto delle persone splendide che mi avevano accolto a braccia aperte. Allora che ero colpito in quello che mi era molto caro, questi amici non sono stati a guardare: mi hanno manifestato compassione e offerto un fraterno sostegno. E la Diocesi di Gorizia, attraverso l’allora Direttore del Centro Missionario Diocesano, mons. Baldas che saluto e ringrazio sentitamente, mi diede un sostegno per poter continuare gli studi. Ma anche tante altre persone, a cominciare dai sacerdoti, come i successivi parroci di Monfalcone, don Valle, don Dario, don Fulvio e don Flavio, mi hanno sempre accolto e aiutato in tale modo che non mai sentito il bisogno di scappare dall’Italia per cercare miglior fortuna.Un’altra ragione che mi ha tolto la voglia di andare altrove, ma questo ha avuto piuttosto una valenza marginale, è che quando il genocidio che devastò il Rwanda fu fermato, molti paesi hanno chiuso i loro confini ai cittadini rwandesi: eravamo tutti, vittime e carnefici, sospettati di partecipazione a quell’orrore “inconfessabile” (P. Saint-Expéry, 2004).Un episodio eloquente al riguardo: non mi ricordo se era nel 1995 o 96, mi era stato offerto di accompagnare un convoglio di malati in pellegrinaggio a Lourdes.Quando mi recai al consolato di Francia a Venezia per chiedere il visto, mi fu semplicemente negato in quanto rwandese.

Trent’anni di permanenza sono un bell’arco di tempo della propria vita e in questo lungo periodo ha certamente incontrato molte “anime”. Su cosa ha fondato le sue relazioni con queste persone? Cosa ha desiderato trasmettere loro, che “segno” ha voluto lasciare?Ha detto “anime”? Non ho mai incontrato una anima librandosi in strada o sulle piazze. Ho invece incontrato delle persone in carne e ossa che non solo si sono confidate con me ma, anche hanno condiviso con me il loro pane e quanto altro. Ho condiviso le loro gioie e le loro sofferenze, le loro ansie e le loro speranze (G.S. 1). Quindi le nostre relazioni sono state costruite innanzi tutto sulla comune umanità, cioè sulla fiducia reciproca. E poi sulla fede condivisa che apre i cuori alla carità e le coscienze alla speranza che spinge a guardare oltre il momento presente e quanto lo caratterizza.Per quanto riguarda il segno che lascio, non tocca a dirlo. Anche perché non è mai stata la mia intenzione di lasciare segni. Come sacerdote, sono consapevole che è lo Spirito Santo che costruisce la Chiesa. Egli opera nei cuori e nelle coscienze dei credenti nel Cristo Risorto. Quindi, io posso solo essere uno strumento umano che prepara le persone ad ascoltarlo, testimoniando della sua presenza e della sua attività in mezzo alla comunità cristiana.Il mio ruolo è stato, forse, quello di accogliere ed ascoltare chiunque veniva a trovarmi per un motivo o per un altro e ricordare a tutti che, nonostante le apparenze, Cristo continua a camminare con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo (Mt 28,20).

Ora rientrerà in Rwanda, cosa l’attende al suo rientro? Quali mansioni ricoprirà?Cosa mi aspetto in Rwanda al mio rientro? Niente di particolare. Seguo con attenzione le informazioni sul mio paese e, quindi so, più o meno, gli orientamenti generali della sua politica.Ritroverò il mio popolo, la mia terra, la mia Chiesa. A dire il vero, non li ho mai lasciati. Me li porto dentro e niente ci può separare. Penso che vale per tutti e non solo per me. Perché sono quegli elementi che ci fanno quelli che siamo. E poi ogni di più è sempre un guadagno.Pertanto, rientro per proseguire la mia missione di sacerdote al sevizio d’una comunità cristiana vivace, di una chiesa locale in pieno sviluppo.Per ora non si parla di mansioni. Non è mio compito. Se ne parlerà una volta sul posto.

Che Paese l’aspetta al suo arrivo? Com’è la situazione sociale e politica ora e cosa si augura per il suo Paese?Il paese che mi aspetta al mio ritorno è un Paese sereno, fiducioso, dinamico e… ambizioso. Ora sta guardando alla scadenza 2050, per i suoi programmi di sviluppo. Ogni tanto si sentono dei tam-tam sui social media protestando su questo o quello che si ritiene che non vada bene.Tuttavia, il Paese che rischiava di essere cancellato dalla carta geografica ventisette anni fa, oggi si vanta di poter partecipare, tra i primi al mondo, alle missioni di pace del’ONU nelle zone di conflitto sei mila uomini e donne, circa. Ciò vuole dire il Rwanda ha qualcosa da dare agli altri, qualcosa da condividere col mondo, sofferente e non.Quello che mi auguro per il mio Paese? Che sia sempre un Paese in cui regni la pace, la stabilità, la solidarietà con i più deboli e ove il Vangelo, la Parola che salva possa produrre frutti duraturi in tal modo che ciò che è accaduto nel 1994 non succeda mai più.