Una Caritas che sostiene tutti i fratelli

In questi giorni si celebrano i 50 anni di Caritas italiana ma il 2021 rappresenta anche un importante anniversario per Caritas diocesana che ricorda i suoi primi 40 anni di servizio.Alla luce di questi anniversari, abbiamo incontrato mons. Ruggero Dipiazza, direttore della Caritas diocesana di Gorizia dal 1990 al 2007, testimone in quegli anni di importanti cambiamenti, sia all’interno della stessa Caritas, sia all’interno della società, che si trovava ad assistere ad un vicino conflitto e nuove migrazioni.

Mons. Ruggero, quest’anno festeggiamo i 50 anni di Caritas italiana e i 40 della Caritas diocesana di cui Lei è stato il direttore dal 1990 al 2007. Proprio gli anni ’80 -’ 90 hanno rappresentato un momento di passaggio da una Caritas più assistenzialista ad una Caritas più strutturata, dove la carità è intesa come parte costitutiva dell’essere Chiesa. Quale quindi “l’eredità” che ha ricevuto e che ha accompagnato poi in questo cambiamento?Potremmo dire che la Caritas diocesana ha anche più di 40 anni: certo, l’atto costitutivo è il “vero” momento di partenza, ma è bene ricordare che azioni di assistenza erano già in atto con le opere della POA (Pontificia Opera di Assistenza) e dell’ODA (Opere Diocesane di Assistenza).Per quanto riguarda la Caritas diocesana, nei primi anni ’80 non era molto presente a livello triveneto e nazionale, era sorta da pochissimo e non si era ancora colto il cambiamento sostanziale in atto in quel momento. Quindi, appunto tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, mi trovai investito di questo ruolo, che accettai… anche un po’ inconsciamente: non si sapeva infatti ancora bene cosa fosse la Caritas e se ne parlava in maniera un po’ impropria.Quando incontrai la prima volta la Caritas Italiana, una cosa in particolare catturò da subito la mia attenzione: ossia che la Caritas non si colloca nell’area dell’ecclesiologia ma sta nell’ambito della cristologia; non è quindi uno strumento della Chiesa per fare qualcosa ma un impegno di testimonianza, specificamente di fede. Da qui era chiaro come tutte le Caritas – a prescindere dalla nostra che era una neonata – ritenessero che la prima operazione da fare fosse quella pedagogica, ossia come fare per far crescere all’interno delle comunità la consapevolezza che amare i fratelli è un atto di fede. Non è quindi più una “buona azione” messa in atto ma è esprimere la propria fede attraverso le opere.

Quali erano le urgenze più immediate?Il problema più rilevante riguardava il come fare in modo che le Chiese diventassero direttamente testimoni della carità, non facendo quindi solo attenzione alle mancanze della società, ma capaci di contrastare e contestare le cause, non solo intervenendo sugli effetti. Questo è il punto: una Caritas soltanto capace di amare ma che non lotti per la giustizia, chiaramente sarebbe una Caritas “colpevole”.Da qui seguì anche un po’ il mio compito quando scoppiò la guerra nella ex Jugoslavia: ci si interrogò su come fare affinché l’intervento di aiuto, di sostegno a questi Paesi, potesse essere testimonianza di una carità che cerca l’incontro, che favorisce il dialogo, che per quanto possibile porta avanti il tema della giustizia, lo scambio tra diversità, senza esasperare gli aspetti delle differenze di religione, etnia, nazionalità…

Il suo impegno durante il periodo della guerra nella ex Jugoslavia è stato rilevante. Cosa le venne chiesto di svolgere e cosa venne messo in atto?Il mio lavoro si esplicitò in particolare negli anni “caldi” della guerra, con vari interventi: il primo, come Caritas diocesana, fu la ristrutturazione di un asilo della diocesi uniate (dei cristiani di rito ortodosso riuniti nella Chiesa cattolica) a Osijek, danneggiato dai bombardamenti. Ci pareva importante che, anche in questa situazione, andassimo oltre i luoghi comuni: innanzitutto ci preoccupiamo dei fratelli, dove il concetto di fratello viene inteso come un andare oltre, verso una testimonianza che cerca in tutti i modi di essere di soccorso a tutti.Da qui i miei viaggi, in forza di un impegno che la Caritas nazionale mi aveva dato, ossia quello di costituire un po’ la sua “avanguardia” nei confronti della Jugoslavia. Questo è stato inteso e vissuto come qualcosa di particolarmente importante e Caritas Italiana lo valorizzò moltissimo.È stata un’esperienza nella quale ho cercato di testimoniare la carità partendo dalla mia vita, dal mio modo di essere. Già da prima, quando venni incaricato di dirigere la Caritas diocesana, scelsi di abbassare quelle che allora erano le mie ore di insegnamento scolastico da 18 a 10, perché ritenevo di dover dare testimonianza seria di un incarico diocesano che proprio perchè importante doveva diventare prioritario. Voglio anche ricordare e ringraziare la mia parrocchia di San Rocco a Gorizia, che intese subito come ciò che stavo facendo fosse estremamente importante; si offrì sia con l’apporto di moltissimi volontari, che con la capacità di accettarmi anche via, lontano, impegnato nei compiti che Caritas Italiana mi assegnava. Mi dette un grosso sostegno.

Le aree della ex Jugoslavia avevano ed hanno una forte componente ortodossa e musulmana, oltre che cattolica. Che rapporto di convivenza trovò tra le religioni e come veniva vissuta la presenza e l’operatività di Caritas italiana sul territorio?Personalmente ho sempre incontrato le tre realtà – ortodossi e musulmani sono presenti in modo significativo nell’area della Bosnia Erzegovina e del Kosovo -, i contatti e il dialogo sempre presente. Diciamo che la difficoltà di accoglienza reciproca da parte delle realtà cattolica e ortodossa balzavano immediatamente agli occhi; effettivamente era una situazione che da secoli si perpetuava come una specie di primogenitura vantata da ambedue le parti nei confronti di un terzo.In pratica gli ortodossi pensavano erano stati loro ad aver salvato la cristianità a Kosovo Polje (con la battaglia del 1389) e i croati cattolici da sempre pensavano di rappresentare l’ultimo baluardo in difesa della Cattolicità nei confronti dell’Ortodossia… ciascuno quindi vantava un po’ questa priorità del merito specifico, dimenticando che la Chiesa è unica, che Gesù Cristo non va spezzettato, né conteso, né usato uno contro l’altro.Da parte mia, ero portatore di un messaggio positivo: venendo dalla “vecchia” Gorizia:, anche noi avevamo vissuto difficoltà di vario genere, ma avevamo cercato sempre di superarle in uno sforzo di una pace che non fosse solo teorica ma fatto di incontro, comprensione, conciliazione. Temi che proponevo sempre, in un contesto però – devo dire – “ammalato” in cui non è stato mai facile parlarne.Per quanto riguarda l’operato di Caritas e come veniva visto, devo dire con grande soddisfazione che quando al confine – e i confini a quel tempo non erano uno scherzo! – dicevo di essere direttore della Caritas diocesana di Gorizia, mi facevano sempre passare senza nessuna difficoltà e anche i contatti in loco, presi per poter mettere in atto le opere di Caritas, sono sempre stati molto fruttuosi, l’accoglienza e il dialogo sempre ottimi. Il “fare il bene” non è mai stato ostacolato, in nessun modo. Dopo questa prima fase – con una Caritas impegnata a spendersi particolarmente in questo conflitto, portando il contributo delle proprie risorse ma specialmente portando quanto possibile un’identità di carità che non cercava soltanto di sopperire ad un bisogno fisico o materiale, ma che cercava di essere portatore di un messaggio di pace, di giustizia -, rimanevano ancora i vulnus del Kosovo e quell’essere “sospesi” delle tre componenti della Bosnia Erzegovina. Queste problematiche non sono ancora superate.Ad ogni modo sopravvivono ancora oggi dei bei gemellaggi tra diverse parrocchie italiane e località ex jugoslave, che continuano operativamente in maniera vivace. Di gemellaggi ne ho favoriti moltissimi, accompagnando varie delegazioni di Caritas Italia ad incontrare queste realtà di oltre confine e cercando di stabilire tra loro quei rapporti che, come accennavo, in certi casi sono ancora vivi e ancora occasione per crescere reciprocamente.

Nel frattempo in Italia cosa succedeva? Ricordiamo, come si diceva, che erano anni di cambiamento anche per la stessa Caritas…Una volta concluso il conflitto, ci si concentrò in particolare sul territorio locale, per far crescere la consapevolezza pedagogica delle Caritas, del loro impegno all’interno delle parrocchie. Operazione che credo non debba finire mai, perché questa “catechesi” della carità dovrebbe essere sempre nel cuore di Caritas.Si lavorò molto anche sulla gratuità del volontariato: su questo tema abbiamo sempre insistito. Il volontariato deve essere maturo, convinto, continuativo e gratuito. Deve essere quindi serio e preparato. Anche la parte della “regia”, l’aspetto quindi più manageriale di Caritas, deve essere preciso e mirato, specificato e delimitato. Credo anche che si debba dare tempo al tempo degli interventi, lavorando sul lungo periodo per non correre il rischio di lasciare poi solo le “rovine” di un progetto.Da lì a poco Lei fu testimone di un altro importante avvenimento storico: la migrazione dei cittadini albanesi verso il nostro Paese. Una pagina oggi forse un po’ dimenticata ma importante, perché molte di quelle persone poi si fermarono sul nostro territorio diventandone cittadini a tutti gli effetti…Il primo arrivo di albanesi in Italia contò 23.000 persone, che vennero distribuite su tutto il territorio nazionale. La loro accoglienza sul nostro territorio fu disponibile, aperta, cordiale. Fu un’operazione particolarmente riuscita e da parte di molte delle nostre famiglie ci fu l’apertura delle porte della propria casa e la condivisione del cibo. Si poté assistere ad una disponibilità assolutamente inedita, nuova e bellissima. Molti albanesi di quel primo periodo, è vero, si sono sistemati sul territorio, hanno trovato lavoro o aperto proprie attività e portano avanti con molto impegno il loro condividere la vita delle nostre comunità, a prescindere dall’aspetto religioso.Dopo questa prima migrazione, si presentò – nei primi anni 2000 – il problema dei kurdi, che arrivarono in massa dai Balcani. Dall’aeroporto di Sarajevo, diventato punto di riferimento per tutti quelli che cercavano di arrivare in Europa, proseguivano verso Croazia e Slovenia, arrivando a Gorizia. Nel solo 2001 accogliemmo 8.000 kurdi al San Giuseppe, dove si aprì questa struttura di prima accoglienza e il volontariato si espose in prima persona, in maniera totale, spontanea e piena: per i cinque anni successivi, sulle 24 ore, c’era sempre una presenza di volontari – circa 150 in totale da varie parti della diocesi – a seguire a turno questi arrivi e vennero accolte circa 14.000 persone.Va segnalata anche l’ottima collaborazione con la Questura di Gorizia, ai tempi retta dal dottor Mulas, e non da ultimo l’intervento dei Fondi 8xmille con i quali fu possibile contribuire alla ristrutturazione dell’edificio.C’è da dire infine che questa, rispetto all’albanese, era una migrazione diversa: molti kurdi qui facevano solo una sosta breve – potevano sistemarsi, mangiare qualcosa, avere assistenza medica – per poi ripartire subito, gran parte delle volte verso la Germania.

Poco fa citava i numerosi volontari. Credo sia un bel segno di come quella forma “educativa” della Caritas avesse funzionato…Davvero ci fu una convergenza di persone, senza nessuna forma di “reclutamento” ma semplicemente perché si sentiva che lì “bisognava” esserci.Questo rappresentava quell’espressione concreta della carità che non ha bisogno di tante parole o di una grossa organizzazione, perché nel momento stesso in cui le persone sono convinte, automaticamente si danno regole. Io stesso sono stato quasi “travolto” da quella disponibilità, non c’è stato bisogno che animassi la comunità dei volontari. Per certi versi erano loro che animavano me!

Lei ha avuto modo di conoscere e frequentare mons. Pasini, secondo direttore di Caritas italiana, con il quale collaborò in materia fruttuosa. Che ricordi di questa persona, quali insegnamenti conserva? Poter frequentare mons. Pasini lo ritengo un grande dono. È stato più volte mio ospite, l’ho accompagnato nei vari viaggi verso la ex Jugoslavia. La nostra non è stata solo una collaborazione lavorativa ma anche un’amicizia, un riconoscimento reciproco di quelle che erano delle qualità.Mons. Pasini aveva un grande spirito di fede, una grande capacità di spesa di sé, una grande chiarezza di impostazione su quelle che erano le problematiche della carità – cogliendo l’insegnamento di mons. Nervo per il passaggio da una Chiesa assistenziale ad una Chiesa testimoniale -. Un uomo di una limpidezza di pensiero e di una capacità di dono di sé straordinarie, sapeva cogliere esattamente ciò che stava vivendo la Caritas, senza nessun particolare clamore.Tanti “personaggi” passarono qui, poiché era un po’ il punto di raccordo tra l’Italia e i territori dell’ex Jugoslavia. Persone dal carisma specifico, particolare, che non diventava mai ostentazione di modi o di forme, ma era sostanza specifica, testimonianza precisa del fare qualcosa perché ci credi fermamente e ti esponi in prima persona.

Lo dicevamo anche prima: la carità è qualcosa che va vissuta insieme alla comunità. Oggi a volte ci si sente però un po’ soli nell’accoglienza delle fragilità. Cosa potrebbe essere fatto quindi per evitare che la carità venga demandata solo a Caritas e non appunto sostenuta da una comunità?Sembra banale, ma il fatto che ci siano delle risorse sul territorio – da parte di Comuni, Stato, Enti benefici… – e non si riesca a stabilire un punto di riferimento, dove i dati sono conosciuti e condivisi, permettendo a tutti di avere un po’ di conoscenza delle possibilità e delle richieste, ci mette in grande difficoltà.Molte volte inoltre l’urgenza di una situazione non consente di concedere troppo tempo alla burocrazia, avendo come conseguenza il fatto che spesso “ognuno pensa per sé”. Sarebbe invece necessario trovare un modo per sburocratizzare il tutto, creando maggiore rete e condivisione, in maniera tale da avere chiaro quali siano le risorse disponibili e per evitare che qualcuno riceva da più parti, mentre qualcun altro rischi di restare senza aiuto, tenendo quindi conto in egual misura di tutti.Utile sarebbe poi una sorta di “agenda” condivisa tra le parrocchie dove segnalare le possibilità di svolgere qualche lavoretto (sgomberi, giardinaggio, pulizie, piccole manutenzioni…): molto spesso le persone in difficoltà è proprio di questo di cui hanno bisogno ma, da soli, fanno difficoltà a trovare impiego, anche di breve durata.

Cambiano i tempi, cambia Caritas, cambia anche la povertà. Chi è oggi il povero?Il povero è sempre stato colui che non riesce a provvedere a sé stesso.Questa è la vera povertà: il fatto che, per ragioni diverse, tu sia via via ridotto all’impotenza.A quel punto è chiaro che la povertà emerge in tutto il suo spessore e tutta la sua gravità.Al di là di ogni retorica, la prima povertà è quella materiale. Oggi, a differenza di ieri, è ugualmente importante l’assicurazione sull’automobile, altrimenti non ti puoi spostare e spesso nemmeno lavorare, la luce, il riscaldamento, l’acqua… cose che ieri potevano rappresentare quasi un optional ma oggi fanno parte del nostro vivere minimo.