Reddito di Cittadinanza: un bilancio luci e ombre

Il periodo della pandemia, ne abbiamo parlato in più occasioni, ha portato alla luce le cosiddette “nuove povertà”, persone che mai prima d’ora avevano fatto riferimento ai servizi assistenziali e alle Caritas del territorio.Persone che, nell’arco di pochi giorni, si sono trovate senza un lavoro, o con gli stipendi pesantemente decurtati, ad affrontare l’inaspettata difficoltà ad arrivare a fine mese. In molti si sono rivolti alle misure di sostegno al reddito messe in campo a livello governativo, tra queste anche il Reddito di Cittadinanza. Negli scorsi mesi Caritas italiana ha svolto un accurato monitoraggio su questa misura di sostegno, analizzandone luci e ombre.Ne abbiamo parlato con Nunzia De Capite, dell’Ufficio Politiche sociali di Caritas Italiana.

Dottoressa De Capite, il lavoro di Caritas italiana, attraverso i suoi monitoraggi, va oltre le pure statistiche, concentrando sempre la propria attenzione sulla persona. Alla luce di ciò, chi sono questi beneficiari del Reddito di Cittadinanza, o meglio, chi c’è dietro ai “numeri” del Reddito di Cittadinanza?Nei nostri monitoraggi sulle misure di contrasto alla povertà ci siamo concentrati in un’analisi su dati aggregati, con delle simulazioni che ci permettessero di capire quanti poveri prendono il reddito e quante persone lo prendono pur non essendo povere assolute. Abbiamo fatto quindi delle analisi più generali, accanto alle quali abbiamo effettuato delle analisi specifiche su Caritas; rispetto a questa sono emersi dati relativi sia a chi si rivolge alla Caritas e prende il Reddito di Cittadinanza (Rdc), sia a chi, pur andando in Caritas, non riesce a prendere il Reddito.Rispetto a chi lo prende abbiamo osservato come questa sia una misura che copre soprattutto persone adulte che vivono da sole e monogenitori con figli minori. Rispetto quindi alla platea che si rivolge alla Caritas, il Reddito si concentra molto su queste tipologie di famiglie e, per converso lascia fuori tutte le coppie giovani con figli minori. Dal nostro monitoraggio abbiamo notato che queste erano per la maggior parte o straniere – quindi escluse purtroppo dal RdC – o non sapevano di averne diritto. Questo tema è emerso molto fortemente, abbiamo dei dati consistenti: 1/3 delle persone che non hanno avuto accesso al Rdc credeva di non avere i requisiti per farne domanda. In realtà abbiamo poi scoperto che erano nuclei con redditi bassi, si arrivava fino a 800 euro al mese; quando è scoppiata la pandemia, dopo il nostro intervento hanno fatto domanda e hanno ricevuto il reddito ma erano nuclei che avrebbero potuto presentare domanda già nel 2019. Questo ci ha posto di fronte al tema dell’orientamento dell’informazione, soprattutto per questa categoria in particolare (coppie giovani con figli minori) che tra l’altro è la tipologia che più frequentemente si rivolge ai centri Caritas.

Parlando proprio del periodo pandemico, quali sono state le oscillazioni?Nei rilevamenti effettuati abbiamo appurato come le richieste di coppie Under 50 con figli minori e di Under 44 siano aumentate tra il 2019 3 il 2020 alle Caritas. A volte si tratta di nuclei famigliari nei quali uno dei due lavora, con redditi pertanto non così bassi come nella media delle famiglie che incontravamo precedentemente come Caritas prima della pandemia, ma in ogni caso persone che, a causa della pandemia e della crisi socioeconomica si sono trovate in grave difficoltà nell’arrivare “a fine mese”Il paradosso è che si tratta delle categorie meno tutelate, perché appunto non avevano fatto domanda di Reddito perché stranieri, o perché non lo sapevano, o perché avevano ancora delle piccole quote di risparmio che, essendo calcolate nell’ISEE, impedivano loro fino al 2020 l’accesso al Rdc.

Quali sono i punti di forza e gli “anelli deboli” del Reddito di Cittadinanza?Tra i punti forti sicuramente il fatto che questa misura esiste, è molto finanziata e questo, soprattutto in pandemia, ha avuto un ruolo molto importante. Finalmente abbiamo una misura di reddito minimo in Italia in maniera strutturale. Diciamo quindi che ora esiste una “base” che fino a qualche anno fa non avevamo.È una misura che prevede una parte economica ma anche una parte di inclusione attiva, ossia di accompagnamento sociale e lavorativo delle persone; questo almeno sulla carta, perché poi – qui iniziamo con i punti deboli – questa è una misura ancora incompiuta. È molto complessa, contiene al suo interno tanti livelli, anche amministrativi (parliamo di INPS, Comuni, Centri per l’Impiego, Terzo Settore, Formazione…) tanti attori nazionali e locali, pertanto è difficile far girare tutti gli ingranaggi.È una misura poi che richiede delle precondizioni di funzionamento. Mi spiego: abbiamo tanti utenti, tante persone che la ricevono; per realizzare in maniera adeguata percorsi sociali e lavorativi, c’è bisogno di strutture che funzionino e che siano attrezzate sui territori. Questo processo è ancora in corso e sicuramente è un elemento che ha “amputato” la misura; il contributo economico è arrivato subito a chi ne ha fatto domanda e aveva i requisiti. Tutta la parte a valle, che dipendeva dalla riorganizzazione e dal potenziamento dei servizi locali, è ancora totalmente deficitaria.Ci sono quindi tanti aspetti che vanno migliorati ma dobbiamo considerare che questo veramente è un processo lento, che richiede dai 5 ai 10 anni per compiersi in maniera effettiva. C’è bisogno di un percorso graduale; è cominciato, bisogna avere un po’ di pazienza.Ci sono poi delle cose del Rdc che non funzionano perché la legge è lacunosa: il requisito di 10 anni di residenza – che sta tagliando fuori decine di migliaia di famiglie di stranieri -, il fatto che ci sia una soglia per il contributo dato alle persone singole molto più alta di quella per famiglie numerose e con figli minori… è una misura molto iniqua. Questo va corretto con dei parametri di scala di equivalenza e titoli di accesso che vanno ritoccati.È poi una misura che sta creando degli squilibri territoriali, perché nelle regioni del Nord la ricevono poche persone in povertà e chi la riceve non riesce comunque a superare la soglia di povertà. Invece al Sud la ricevono tante persone che, grazie al Rdc, superano abbondantemente la soglia di povertà; l’importo che viene erogato al Sud, rispetto al costo della vita è molto sbilanciato e sta creando quell’effetto di spiazzamento rispetto alle offerte di lavoro. Spesso infatti ci sono offerte a 300 – 400 euro al mese ed è normale, anche per una questione di giustizia personale, che le persone preferiscano tenersi il Rdc. Si tratta quindi di fare in modo che sia conveniente per una persona accettare un lavoro; si dovrebbe creare un meccanismo di aliquote marginali, fatto di percorsi graduali che portino la persona a smarcarsi dal RdC.Sempre all’interno delle cose da rivedere ci sono dei processi di rafforzamento locale che vanno attuati e il Ministero dovrebbe inoltre potenziare il supporto alle Regioni e agli Ambiti territoriali più deboli con attività di consulenza, di formazione…Sul fronte lavoro infine, anche noi diciamo che vanno rafforzati i Centri per l’Impiego ma abbiamo anche visto dall’analisi dei dati che le persone che vengono indirizzate in percorsi lavorativi presentano enormi fragilità – sono demotivate, hanno un livello d’istruzione molto basso, sono lontane dal mercato del lavoro… -; vanno fatti dei percorsi adeguati di riqualificazione e di formazione, anche con la collaborazione del Terzo Settore.

Parlando proprio di Terzo Settore, che futuro per questo – e quindi anche per la Caritas – all’interno del Reddito di Cittadinanza?Il quadro oggi sta un po’ cambiando rispetto al passato. Un tempo il Terzo Settore svolgeva un ruolo, giustamente, di sostituzione in una situazione – dal 2008 in poi – di impoverimento della popolazione. Ha svolto un ruolo capillare molto forte di sostegno economico, in una marcata connotazione di attenzione alla persona, ponendosi in prima linea con interventi, in alcuni momenti anche massicci. Negli ultimi anni la situazione è molto cambiata e questo deve interrogare rispetto al ruolo che il Terzo Settore ora può e deve svolgere.È innegabile che avere 8 miliardi di euro l’anno per le persone in povertà fa la differenza. Continuare a insistere e svolgere un ruolo di attori in primo piano sul fronte dell’aiuto materiale, rischia di essere un po’ un boomerang, perché ci fa proseguire in un ruolo che non è più necessario in questa fase, almeno per le persone già coperte.Ciò significa rivedere quello che si attua sui territori: il tema della formazione e dell’orientamento per esempio è nuovissimo e cruciale; svolgere un ruolo di “cerniera” tra i cittadini e la pubblica amministrazione in maniera strutturata…Accanto a ciò c’è tutto il quadro di accompagnamento alla persona e il tema della co – progettazione, ossia il realizzare servizi e attività complementari al settore pubblico ma progettate insieme ai Servizi sociali e ai Centri per l’Impiego. La vera sfida in questo momento è provare a non lavorare separatamente.Io credo che il Terzo Settore – e in questo anche le Caritas – dentro il Rdc, ma anche dentro tutte le misure di sostegno economico alle famiglie, possa fare la differenza, ripensandosi in maniera “creativa”, come ha detto papa Francesco.

Nei vostri monitoraggi sono sempre analizzate anche le esigenze, le necessità e le difficoltà degli operatori. Cos’è emerso dal confronto con loro su quest’ultimo, drammatico periodo?Gli operatori Caritas hanno segnalato criticità nell’accogliere situazioni nuove, ossia situazioni di persone che non erano note prima ai servizi e vivevano quindi difficoltà temporanee alle quali non erano assolutamente abituate (per loro è stato complicato chiedere aiuto, rivolgersi a Caritas).C’è stata quindi per entrambe le parti una nuova “fatica”, uno spiazzamento nel dover affrontare una situazione di impoverimento realmente improvviso di nuclei famigliari che prima erano completamente estranei ai circuiti dell’assistenza.Altra situazione disorientante è stato il fatto che si sono rivolte a Caritas persone che avevano delle tutele – per esempio i cassaintegrati – ma per lungo tempo sono rimasti in attesa di ricevere i contributi e quindi, anche qui assolutamente non abituati a chiedere aiuto e a rivolgersi alla Caritas, si sono visti costretti in extrema ratio a chiedere aiuto.Profili quindi molto nuovi e diversi dai consueti di marginalità e di cronicizzazione della platea Caritas.Questo certamente è collegato alla pandemia ma in realtà, proprio attraverso i nostri monitoraggi, già da qualche anno stavamo osservando un cambiamento nei profili. Qui si accende una “spia”: c’è da chiedersi quanto e quando questa situazione si stabilizzerà, quanto sia solo legata alla crisi pandemica o quanto invece in effetti ci siano dei bisogni in profili nuovi di persone che, non avendo una risposta dal settore pubblico o non sapendo come accedervi, si rivolgono a Caritas.È emerso poi il tema della vicinanza alle persone anziane e della loro solitudine, realmente esploso in pandemia, anche queste attività che non erano strutturate e ora hanno l’esigenza di essere impostate in maniera migliore.In tutto questo però il bisogno più grosso per gli operatori è stata la necessità di parlare delle cose che stavano succedendo, di condividere questa fatica e acquisire delle competenze specifiche per poter svolgere meglio il loro lavoro, per poter dare delle risposte immediate alle persone.Altra cosa che riportano sempre è la fatica a collaborare a livello locale. Si cerca di cooperare in maniera strutturale e stabile con gli enti e le varie realtà territoriali; non è sempre facile ma oggi si è aperto un canale, stiamo cercando di creare occasioni sempre più stabili di collaborazione, anche per avere degli agganci “reali”, non solo con anonimi numeri di telefono o indirizzi mail ma delle persone in carne ed ossa, alle quali gli operatori possano far riferimento in maniera concreta.