“Non merito di vivere”

“Sono un fallimento, non merito di vivere” così ha detto Alessandra De Fazio, Presidente del Consiglio degli Studenti dell’Università di Ferrara, al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dal pulpito dell’inaugurazione dell’Anno Accademico. Dito puntato contro “le capacità” che, entro l’aurea della competitività, sarebbero colpevoli di mietere vittime, le persone meno dotate appunto, a cui “vengono sbattuti in faccia i successi altrui”.La cronaca dell’evento non rivela se i presenti abbiano rimproverato o consolato questa amareggiata studentessa ma le sue parole meritano una riflessione urgente, particolare e generale.Intanto sull’uso del termine “fallimento” che ha una componente più grave e soggettiva del mero “errore”, quasi come fosse un giudizio consuntivo che, fatto da una ragazza poco più che ventenne, lascia già di per sé basiti. Impiegato poi come connubio “fallisco quindi non merito di vivere” svela anche un profondo fraintendimento educativo e formativo, come se solo i bravi meritassero di vivere e come se la vita, tra l’altro, dovesse essere “meritata”.Il fallimento poi, in questa visione distorta, diventa anche giustificazione della “non vita”, in una scala di valori contorto che ha smarrito la misura delle cose, il giusto peso, il costo e la possibilità di riscatto dagli insuccessi e dalle difficoltà. Credere (e pretendere) che la vita debba essere costellata di orizzonti positivi ed in quanto tale sia “vivibile” significa non aver compreso, o non essere stati messi in condizione di comprendere, la complessità della vita umana ingannati da una qualche narrazione fiabesca dove la vita deve essere necessariamente giusta, immacolata dagli inciampi ed esente dalle cadute. Anche l’uso del termine “meritare” usato per sostenere il concetto di “meritare di vivere” è largamente preoccupante perché pare richiedere l’elevazione di una persona ad un giudizio di merito. Ma chi si può arrogare tale arbitrio sugli altri e su sé stessi? Premesso ciò, vi è anche una dimensione generale del problema, quella della ricerca di un colpevole sociale che viene trovato nel “merito”: “basta meritocrazia” dice la studentessa “i successi degli altri sono colpa dell’ansia prestazionale”, di fatto ribaltando i valori che hanno retto (o che dovrebbero reggere) la vita generale lavorativa e studentesca. Su questo vi è però un largo dissentire: la meritocrazia è l’ultimo salvagente collettivo a cui la società può e deve aggrapparsi se vuole tendere ad un miglioramento generale, etico ed economico. Confidare che “i più talentuosi” abbiano il potere di incidere sul benessere collettivo è l’auspicio più alto, solidale, equo ed umano a cui si possa ambire e non, viceversa, una iettatura o, ancora, causa di “ansia della competitività”.Questa pare derivare, piuttosto, quando i successi altrui sono rappresentati come estranei alla collettività, eccezionali e inumani, come obiettivi patinati, invidiabili nella vetta ma non nel percorso fatto invero di una lunga gavetta faticosa che, in quanto tale, è  condivisibile e ripetibile.Allora è giusto parlare del problema attuale (che va sotto il nome de “il mito della performatività”), ma lo sforzo collettivo (se maturo) deve guidare alla giusta lettura dei fatti e delle cose e non alla perseverante e sufficiente compiacenza dei giovani che puzza, all’opposto, di insopportabile disinteresse.