La barba a Carlo

Alle 4 di notte i marziani sono venuti a prendermi. Sono bardati come marziani nelle loro tute anticovid gli infermieri del 112 che mi inghiotte e mi trasporta in ospedale. Pensieri primordiali: la paura di morire, il respiro che ti manca, il cuore che batte impazzito in gola. So che cosa è: è la fibrillazione atriale che accompagna la mia polmonite. Lo capisco perché sono un medico, anche se questa volta sto dall’altra parte. Siamo in due nella cameretta di medicina dell’ospedale di Gorizia. L’altro è un signore anziano che emette ogni tanto un lamento. All’inizio quasi non mi accorgo di lui. Penso al destino che come un soffio di vento autunnale fa cadere le foglie dall’albero. È notte fonda: mi accorgo che Carlo, il mio compagno, si deve essere sporcato. Chiamo l’infermiera con il campanello. Sorpresa: lei accorre e lo tratta come fosse suo figlio. Lo lava, lo cambia, lo conforta. Quando ha finito mi racconta dei suoi due figli che giocano a calcio. Mi chiede se ho figli e si stabilisce un contatto di umanità che per un malato è come un farmaco potente. Il libretto delle preghiere delle ore è sul mio comodino, il mio vissuto di C.L. e dell’Unitalsi è sempre dentro il mio petto. Che cosa posso fare in una situazione come questa di impotenza e fragilità? Ho fatto la barba a Carlo che nel frattempo si era un po’ svegliato e aveva espresso questo desiderio. Nel Signore che ci parla attraverso il reale che ci fa vivere dobbiamo sperare e non nei falsi dei che ci promettono vaccini e immortalità ed intanto ci trascinano nel nulla.