Giovani: promesse tradite e gavette senza fine

Recentemente il blog “Dataroom” della nota giornalista Milena Gabbanelli ha lanciato l’allarme sugli stipendi dal 1990 ad oggi: in Europa i salari non crescono in proporzione al Pil anzi, con quote sempre maggiori, se ne allontanano (ad oggi siamo quasi 10 punti percentuali di distanza).I dati fotografano Stati che hanno tenuto meglio (ad esempio la Svezia con la crescita del +63% nel trentennio), Stati di medio livello (ad esempio la Francia +31%) e Stati in palese difficoltà (ad esempio la Spagna +6%). Poi c’è l’Italia con un dato addirittura negativo, -2,9%, che attesta ufficialmente che nel bel Paese siamo stati tutti, forse irrimediabilmente, sensibilmente impoveriti.Sulle cause di questo trend gli esperti paiono essere d’accordo nel ritenere che sia stata la globalizzazione che, nelle pieghe di tanti vantaggi, ha portato con sé pericolose insidie per il mondo del lavoro: invece di premiare le eccellenze, ha abbassato lo standard generale verso i livelli dei Paesi più poveri. Una tendenza che ha attecchito soprattutto in quei Paesi che non hanno protetto le proprie alte peculiarità, tecnologiche in primis, rinunciando così a gareggiare nella serie A della qualità ma accontentandosi, per partecipare ad un campionato più ampio, di giocare in serie C (trascinando quindi di fatto al ribasso le condizioni di gioco).Capite le cause, gli effetti richiamano rimedi ad oggi disordinati, episodici e selettivi che rischiano solo di creare ingiuste discriminazioni fra lavoratori (e pensionati) tra chi riceverà di più e chi meno e, tra l’altro, di dimenticare i soliti assenti, quelli cioè che nelle statistiche ufficiali hanno sempre e solo il valore finale di una postilla: donne e giovani.In fondo a questa “classifica”, se le donne con fatica, dai movimenti femministi degli anni 60 e 70, sono riuscite almeno a ritagliarsi spazi di sufficiente inclusione e protesta, sui giovani pesa ancora un insopportabile disinteresse collettivo che approfitta dolosamente della loro ingenuità, della loro inesperienza e soprattutto della loro ancora non compiuta emotività. Eppure i giovani (quelli veri, quelli che hanno dai 18 ai 30 anni e non quelli che ne hanno usurpato il loro posto in una società di eterni Peter Pan) in questo impoverito (di idee e diritti) mercato del lavoro dove a loro vengono offerte le condizioni più vergognose, dovrebbero essere l’unica speranza di obiettivi innovativi e futuristici: negli stessi anni in cui Marconi scopriva le onde radio (21 anni), Zuckerberg creava Facebook (19 anni) e Siegel il fumetto Supermen (17 anni), la società odierna invece li costringe nell’apatia di una fotocopiatrice, nel nichilismo di promesse tradite o in percorsi scolastici diluiti in decenni con gavette senza fine. Di fronte a statistiche che per la prima volta nella storia da un lato ci restituiscono migliaia di giovani svuotati di sogni e di fiducia e dall’altro la mancata crescita dei salari (che pesa soprattutto sulle spalle di chi si appresta ad entrare nel mondo adulto), misure pubbliche “bancomat” non bastano più (i soldi come panacea di tuti i mali è sempre stata scelta risolutiva discutibile) e ne andrebbero invece integrate con altre volte alla socialità, condivisione e fiducia nelle giovanili capacità progettuali e di imprendere. E per tutti quelli che li hanno chiamati “bamboccioni”, “scansafatiche” e “nullafacenti” nella malafede di erigersi diversi da loro, ricordino che quelli oggetti di giudizio non erano nemici da mortificare ma figli da sostenere.