Come uscire dalla crisi

“I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi”: questa affermazione ci fa pensare a recenti posizioni critiche verso la crescita delle disuguaglianze, causate secondo molti osservatori dal modello neoliberista che in 40 anni ha progressivamente ridotto l’intervento dello Stato nell’economia e i sistemi di welfare costruiti nel secondo dopoguerra, con conseguenze economiche e sociali che la pandemia ha reso drammatiche.In realtà la frase fa parte delle Note conclusive della Teoria generale di Keynes pubblicata nel 1936.Anche l’interrogativo su come uscire dalla crisi deriva da uno scritto di questo grande economista che ha rivoluzionato la teoria economica tradizionale per proporre soluzioni alla grande depressione del 1929. Dagli anni ’80, con la svolta neoliberista, Keynes è stato messo in soffitta anche perché la sua ricetta di spesa pubblica in deficit cozzava contro l’esigenza di ridurre l’imponente debito pubblico accumulato in particolare dal nostro Paese.Ma adesso che tutti i paletti europei al deficit e al debito sono saltati aprendo la strada ai vari decreti del governo per rilanciare l’economia, diventa legittimo chiedersi se Keynes sia tornato, come peraltro già auspicavano alcuni grandi economisti di fronte alla crisi del 2008.Tutti gli Stati, compresa ovviamente l’Italia, stanno iniettando nel sistema dosi crescenti di liquidità per sostenere sia i consumi delle famiglie sia la possibilità delle imprese di far fronte ai gravi danni determinati dalla chiusura.Eppure tutte le misure varate sembrano insufficienti.Dipende soltanto dal fatto, come appare dalle rivendicazioni di molte categorie, che i soldi stanziati saranno sempre e comunque inferiori al necessario di fronte alla gravità della crisi? O c’è anche un problema che lo stesso Keynes aveva definito come “trappola della liquidità” per cui, anche in presenza di disponibilità finanziarie almeno per alcuni gruppi sociali, fra cui pensionati e dipendenti pubblici che hanno finora mantenuto i loro redditi, le famiglie non consumano e le imprese non investono, preferendo risparmiare a causa del clima di grande incertezza e preoccupazione per il futuro?Le rilevazioni evidenziano un boom dei depositi bancari per effetto Covid (a maggio + 115 miliardi): di fronte a questa tendenza al risparmio precauzionale che continua sia per le famiglie che per le imprese, il governo cerca in tutti i modi di rilanciare i consumi.È quella attualmente perseguita la strada migliore? Già per la crisi degli anni ’30, Keynes riteneva che misure di tipo monetario e anche fiscale, come la riduzione delle imposte, sarebbero state del tutto insufficienti proprio a causa della preferenza per la liquidità che caratterizza i soggetti economici in tempi di crisi. A suo parere c’era soltanto un soggetto che poteva muoversi in contro tendenza di fronte alle fosche previsioni per il futuro: lo Stato, con un grande programma di opere pubbliche che avrebbero comportato nuovi posti di lavoro e redditi da rimettere in circolazione con effetto moltiplicatore.L’Italia soffre da molti anni di una carenza di investimenti sia pubblici sia privati e la scelta sul che fare per uscire dalla crisi è già stata oggetto di molti dibattiti e proposte: dal riassetto idrogeologico del territorio agli interventi sui ponti che crollano, dall’investimento in ricerca e istruzione a quelli per sanità, economia verde e circolare.Perché non si è fatto e non si fa? Perché le spese in conto capitale sono ridotte al minimo rispetto a quelle correnti? Perché si continua a privilegiare la via dei sussidi, necessari e sacrosanti solo per gli inabili al lavoro o per temporanee situazioni di emergenza, piuttosto che l’attuazione del diritto costituzionale al lavoro? Anche alcuni studi recenti hanno confermato ciò che da tempo pensa un’opinione pubblica rassegnata: i problemi sono di tipo legislativo e burocratico, con cantieri bloccati o che durano decenni, con conflitti continui fra i diversi livelli di governo in un rimpallo di competenze e responsabilità, con difese corporative di interessi, che ostacolano, fra l’altro, una riforma complessiva del sistema fiscale, sempre meno improntato alla progressività e quindi alla redistribuzione dei redditi, obiettivo questo assolutamente prioritario per contrastare le disuguaglianze.Nel 1974 l’aliquota marginale massima dell’IRPEF era del 72% per redditi oltre 500 milioni di lire, oggi è del 43% per redditi oltre 75.000 euro. Sulla scia di Keynes, dovremmo tornare a considerare l’economia una scienza morale e non ridurla ad applicazioni matematiche o ai meccanismi impersonali di un mercato che “non è in grado di autoregolarsi”, dovremmo perseguire un diverso modello di sviluppo rispondendo all’appello di papa Francesco nella “Laudato si’”: “La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare”.Le cose possono e devono cambiare: è responsabilità di tutti noi adoperarci a livello personale, sociale e politico perché questa sia la direzione del “rilancio” o, meglio, di una nuova prospettiva di società più equa, solidale, in armonia con l’ambiente, perché, sempre secondo Keynes, “una volta che ci sia concesso di disubbidire al test di profittabilità di un contabile, cominceremo a cambiare la nostra civiltà” considerando finalmente l’amore per il denaro come “una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali… per tornare ad alcuni dei princìpi più solidi e autentici della religione e della virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza”.