"Stile di vita"
Ci scrive don Remo Ceol per raccontare il processo di uscita dai problemi alcolcorrelati
CHIESA ORTODOSSA E CLUB
Alexjei Baburin, arciprete della Chiesa della Deposizione della Sacra Tunica della città di Mosca, ricercatore Senior dell’Istituzione Pubblica Federale “Centro Scientifico della Salute Psichica” dell’Accademia delle Scienze Mediche della Russia, Presidente del Consiglio Direttivo del Movimento Sociale Regionale per la promozione dei Club Alcologici Familiari di Mosca, Membro del Comitato Esecutivo dell’Associazione Panrussa dei Medici Ortodossi, e soprattutto nonno di otto nipoti, ha partecipato all’ultimo Congresso di Ecologia Sociale e Spiritualità Antropologica di Assisi.
Dopo aver chiarito che “sobria ebrietas” non è il bere moderato, ma l’ebbrezza data dallo Spirito divino o dalla fede, in netta contrapposizione all’ebbrezza di alcol, ha proseguito spiegando che “la spiritualità come fattore terapeutico era usata fin dall’inizio dalle associazioni alcologiche russe per promuovere uno stile di vita sobrio”.
Dalla metà dell’800 fino ai primo anni del ‘900 il Santo Sinodo ha invitato vescovi, sacerdoti, seminaristi a formarsi per sostenere queste associazioni sorte per combattere “l’influenza corruttrice dell’alcolismo”.
Ha proseguito dicendo: “La stretta collaborazione dei membri delle associazioni alcologiche ha contribuito a raccogliere le esperienze pratiche e allo sviluppo di idee e proposte nuove per far fronte all’alcolismo tra la popolazione.
È significativo notare che grazie all’attività e alle iniziative promosse dalle associazioni parrocchiali, degli organismi di vigilanza per la “sobrietà popolare” e alle misure legislative, il consumo di alcol pro-capite in Russia nel periodo dal 1885 al 1905 fu più basso rispetto agli USA e ai Paesi Europei.”
Questi dati risalgono agli anni precedenti dell’avvento del comunismo. Durante questo periodo l’impegno della Chiesa si è ridotto e attualmente c’è una ripresa.
“La partecipazione del clero alla lotta contro i problemi alcolcorrelati era e rimane uno dei requisiti della deontologia pastorale, che incarica i sacerdoti non solo a predicare, ma anche di farsi carico di “qualunque malattia e qualunque infermità” (Mt. 10,1).
I Club degli Alcolisti in Trattamento che utilizzano il metodo di Vladimir Hudolin nella Federazione Russa hanno messo radici in chiesa: sono sorti e si sviluppano nelle parrocchie della Chiesa Ortodossa Russa”.
Il primo club è stato aperto il 5.12.1992 presso la Chiesa dedicata a San Nicola Taumaturgo nei pressi di Mosca.
“L’approccio di Valdimir Hudolin alla soluzione ai problemi legati al consumo di alcolici era consono con i punti di vista, le tradizioni e le aspirazioni del popolo russo.
L’alcolismo non è una malattia, è uno stile di vita” insegnava il prof. Hudolin. Ed è proprio verso la perfezione del nostro modo di vivere e verso la “deificazione”, che aspira la spiritualità ortodossa”.
Sappiamo tutti quanto sia grande il problema dell’alcol in Russia. Dobbiamo anche renderci conto, però, che il problema è altrettanto grande nella nostra realtà locale.
È facile vedere il moscerino nell’occhio dell’altro e non vedere la trave nel proprio.
È importante la testimonianza del Pope che mette in evidenza il rapporto della spiritualità ortodossa e della Chiesa russa con l’impegno dei club, perché ci fa scoprire un altro tipo di relazione tra Chiesa e problematiche alcolcorrelate.
Potrebbe essere questo, motivo di riflessione per la nostra realtà ecclesiale?
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EDUCARE AL BERE
È possibile?
Cosa significa educare al bere? Per educare è necessario conoscere, avere e dare una corretta informazione.
Il Libro dei Proverbi riporta osservazioni interessanti e curiose, quasi umoristiche. “Il vino è beffardo, il liquore è tumultuoso. Chiunque si perde dietro ad esso, non è saggio” (Prov. 20,1). “Per chi i guai? Per quelli che si perdono dietro al vino, per quelli che assaporano bevande inebrianti.
Non guardare al vino come rosseggia, come scintilla nella coppa e come scorre morbidamente; finirà per morderti come un serpente e pungerti come una vipera. Allora i tuoi occhi vedranno cose strane e la tua mente dirà cose sconnesse. Ti parrà di giacere in alto mare o di giacere in cima all’albero maestro. -Mi hanno picchiato, ma non sento male. Mi hanno bastonato, ma non me ne sono accorto. Quando mi sveglierò? Ne chiederò dell’altro-”.(Prov. 23,29-35).
Questa la sapienza dell’Antico Testamento. Interessanti sono anche le indicazioni di San Paolo. Invita “le donne anziane (cioè quelle che hanno responsabilità) a non essere schiave del vino” (Tt. 2,3)
Tra le doti di uno che aspira all’episcopato c’è quella di non essere dedito al vino (1Tm. 3,3; Tt. 1,7).
Anche i diaconi siano “moderati nell’uso del vino” (1Tm. 3,8).
San Paolo si preoccupa della salute di Timoteo e gli consiglia: “Non bere soltanto acqua, ma bevi un po’ di vino, a causa dello stomaco e dei tuoi frequenti disturbi” (1Tm. 5,23).
Questa sapienza, questa consapevolezza è giunta fino ai giorni nostri: chi usa bere moderatamente è considerato e apprezzato, chi si ubriaca viene riprovato e emarginato.
San Paolo prescrive un po’ di vino: lo considera un farmaco. Anche oggi ci sono persone che si auto-curano con l’alcol, ad esempio i depressi. Certamente oggi si sa che l’alcol non è un farmaco, ma San Paolo può aver visto lontano perché la quantità di vino permessa dall’OMS è sempre più piccola: per un uomo due bicchieri al giorno, per una donna e un anziano un bicchiere al dì.
La scienza oggi non distingue più l’uso dall’abuso: l’uso è sempre un rischio e non esiste un bere moderato.
L’alcol crea dipendenza, è una droga, è tossico, è cancerogeno. “Se bevi, bevi meno: ma se vuoi evitare il cancro non bere”.
Su queste informazioni scientifiche è bene che si fondi un’educazione la bere. Educare al bere non consiste tanto nel saper abbinare il vino al pasto in base alle sue qualità, quanto nel conoscere i rischi che comporta il suo uso.
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DALL’INFORMAZIONE ALL’EDUCAZIONE
L’Associazione Italiana dei Club delle Famiglie con problemi alcolcorrelati (AICAT) promuove incontri di Educazione Ecologica Continua, che riguardano tutti i componenti dei Club.
Una volta si parlava di aggiornamento, poi di formazione, ora di educazione: questo perché l’informazione è importante e da questa deriva la formazione, ma il cambiamento culturale esige che le informazioni siano interiorizzate, fatte proprie e facciano emergere le risorse valoriali presenti in ogni persona.
Rispettare i limiti di velocità per paura della contravvenzione è frutto dell’informazione, rispettarli perché si rispetta la vita propria e altrui è frutto dell’educazione.
Comunque è opportuna una corretta informazione riguardo all’alcol: è una sostanza tossica, cancerogena, che crea dipendenza; non è un farmaco e non esiste una dose che non sia pericolosa. Questo lo dice l’OMS.
C’è un’ulteriore informazione riguardo ai giovani. Al disotto dei 20 anni non c’è ancora la capacità di metabolizzare l’alcol in modo completo, con conseguenti danni a tutti i tessuti. Fino ai 25 anni il nostro cervello non è compiutamente formato ed è in evoluzione: si devono ancora equilibrare le regioni della razionalità con quelle degli istinti e delle emozioni. È facile dedurre che l’alcol prima dei 25 anni può avere conseguenze indesiderate.
Nonostante ciò circa il 15% dei ragazzi della fascia 11-15 anni e il 50% della fascia 16-17 consuma bevande alcoliche (Relazione al Parlamento, 2017).
Accanto a queste conseguenze sul proprio organismo ci sono poi i danni provocati agli altri: basta considerare le problematiche legate ad “alcol e guida”. Il dott. Paolo Cimarosti, responsabile del Servizio di Alcologia della ASS. n. 5 Pordenone, afferma che la prima causa di morte tra i giovani non solo in Italia, ma anche in Europa, è l’incidente stradale alcolcorrelato.
Queste informazioni sono facilmente reperibili, e anche altre più specifiche: sono utili a modificare lo stile di vita? Quasi sempre no.
La percezione comune considera come problema prima di tutto la droga, poi l’alcol e infine il fumo. In realtà - per memorizzare meglio - a 1 morto per droga corrispondono 10 per alcol e 100 per fumo. Dalla relazione al Parlamento del 2017 si evince che il 17% di tutti gli accessi al Pronto Soccorso per intossicazione acuta di alcol sono adolescenti di età inferiore a 14 anni. La constatazione amara degli Operatori Sanitari è che i genitori spesso sottovalutano questi episodi.
Per cambiare la cultura generale e quella sanitaria l’informazione non basta: occorre una educazione che coinvolga tutta la comunità.
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L’APPROCCIO ECOLOGICO SOCIALE
Una moglie racconta: “Mio marito aveva il problema del bere. Tante volte alla sera tornava a casa in condizione pietose. Una volta è arrivato sorretto dai suoi amici e io mi sono molto arrabbiata con loro. Gli amici, però, si sono offesi: “Lei se la prende con noi? È lui che ha bevuto!”. Ho sbattuto la porta in faccia a loro”.
Un giovane figlio di una famiglia del club dice: “Grazie a voi ho compreso il problema dell’alcol e ho scelto di non consumarlo. Ma quanto è difficile! I miei amici, se non mi prendono in giro, mi spingono a bere e si ricordano di me solo perché posso guidare, quando hanno bevuto. Mi è difficile rimanere nel gruppo.”
Cosa ci dicono queste due testimonianze?
Il problema alcol correlato di solito lo colleghiamo alla sostanza o alla persona: “è un debole”; “povero, ha tanta sete” (ironico); “non sa bere”.
In realtà il problema nasce dalla relazione: relazione persona-alcol e da qui relazione con le persone, con il lavoro, con la guida, con la società. È la relazione che è “malata”.
Il prof. Hudolin ha insegnato che non è l’individuo malato, ma - quando c’è l’alcol - è la famiglia che ha il problema. Quando c’è una persona con problema alcol-correlato, è la famiglia, la comunità che ha il problema.
Non si tratta di togliere la responsabilità al singolo, ma di riconoscere che tutti siamo corresponsabili. Anche se io non bevo, ho la possibilità di ricevere un danno da una persona che usa alcol: anch’io, sembra strano, vivo costantemente con un problema alcol-correlato.
Ecco perché si parla di Approccio Ecologico Sociale. Non ci si interessa al singolo, ma alla famiglia, agli amici, all’ambiente di lavoro, alla comunità. Non si tratta di guarire il cosiddetto “alcolista”, ma si tratta di modificare la cultura della comunità, di fare opera di educazione.
Ecco perché si promuove l’Educazione Ecologica Continua. Le famiglie informate e formate, che hanno un bagaglio esperienziale, educano la comunità, promuovono una scelta di vita sana.
La Carta Europea sull’Alcol (Parigi 1995), non dice cosa deve fare l’alcolista, ma cosa deve fare la comunità. I “cinque principi etici ed obbiettivi” e le “dieci strategie” impegnano i Governi a promuovere stili di vita dove non ci sia pressione al bere e dove tutti possono vivere, crescere e lavorare “protetti da incidenti, violenza ed altri effetti dannosi, che possono derivare dal consumo di bevande alcoliche” (I Principio).
Già allora non si parlava di abuso, ma di consumo di bevande alcoliche. Si stabiliva di “assicurare che nessuna forma di pubblicità sia specificatamente diretta ai giovani, ad esempio collegando alcol ed eventi sportivi”; di intervenire “sui prezzi delle bevande alcoliche, ad esempio tramite tassazione”, il cui ricavato dovrebbe venire utilizzato per la cura, la prevenzione e la diffusione di stili di vita sana.
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CORRESPONSABILITÀ E INTERDIPENDENZA
I Club, che riuniscono famiglie con problemi alcolcorrelati, sono nati per l’intuizione del prof. Vladimir Hudolin e sua moglie Visnja a Zagabria nel 1964.
Il primo Club in Italia è stato aperto a Trieste nel 1979.
I club ovviamente sono nati ed esistono per offrire alle famiglie una via d’uscita dal tunnel dell’alcol, ma il loro obiettivo è quello di modificare la cultura generale e quella sanitaria in particolare, nei confronti del consumo di alcol.
Per questo motivo esistono percorsi di formazione, educazione che coinvolgono i partecipanti ai club e percorsi per la sensibilizzazione della comunità, attualmente denominati “Scuole Alcologiche Territoriali”.
Gli incontri pubblici mirano a coinvolgere tutte le persone, in base ai principi della corresponsabilità e della interdipendenza. San Giovanni Paolo II nella “Sollecitudo Rei Socialis” del 1987 spiega che “la solidarietà è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti”. (n.38).
Il prof. Hudolin ha continuamente richiamato i club e la comunità sul fatto che “tutti siamo responsabili di tutti”. San Giovanni Paolo II nella “Centesimus annus” del 1991 ribadisce: “La sacra Scrittura ci parla continuamente di attivo impegno per il fratello e ci presenta l’esigenza di una corresponsabilità che deve abbracciare tutti gli uomini” (n.51).
Tutti siamo doverosamente interessati a conoscere i rischi dal consumo di alcol in modo da superare i luoghi comuni e promuovere uno stile di vita sano. L’amore per il fratello non può non spingerci ad intraprendere percorsi di salute. Uno slogan è “Se tu stai bene, anch’io sto bene”. Questa è l’interdipendenza. Se in certi momenti posso scherzare su chi ha bevuto troppo (e barzellette ce ne sono), nella quotidianità mi devo sentire responsabile nell’affrontare la problematica.
È un sano egoismo: meno persone con problemi alcolcorrelati, meno violenza, aggressività, incidenti sul lavoro e sulla strada, meno ricoveri ospedalieri.
In questo processo sono inevitabilmente coinvolte le agenzie educative: famiglia,scuola, chiesa.
Come l’educazione non si riduce a parole, così la salute non si promuove a parole, ma con il fare scelte che incidono sui comportamenti.
I catechisti sperimentano lo scarso successo della catechesi ai bambini, ai ragazzi quando i genitori non condividono una vita di fede. Si dice da sempre che è importante l’esempio. Oggi lo conferma anche la scienza, grazie alla scoperta dei “neuroni specchio”. Ormai si sa che è poco incisivo il medico che prescrive al paziente di non fumare, quando lui stesso porta i segni del fumatore. L’OMS constata e afferma che i problemi alcolcorrelati diminuiscono, se diminuisce il consumo di alcol: e di questo risultato tutti siamo responsabili, anche noi preti.
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I Club Alcologici Territoriali e i Club degli Alcolisti in Trattamento si prendono cura delle persone e delle famiglie con problemi alcolcorrelati.
“Sì, lo so: servono per smettere di bere”. Se servissero a questo, sarebbero una ben misera cosa. Il prof. Hudolin diceva che la semplice astinenza dall’alcol fa solo rimpiangere la sostanza. Quando si toglie la bottiglia, si crea un vuoto e la vita diventa triste. “Allora è meglio continuare a bere” - diceva.
Dall’astinenza si deve arrivare alla sobrietà e questo richiede un cambiamento dello stile di vita. In club si mira a ritrovare l’equilibrio dei rapporti: l’armonia, la pace interiore, la voglia di vivere, di impegnarsi nel lavoro, nelle relazioni umane, sociali.
Le “medicine del club”, gli strumenti del club per ottenere questo sono l’amicizia, l’amore, la solidarietà, l’accoglienza. Così si ritrovano e si imparano le dinamiche sociali: per questo si parla di ecologia sociale. Ciò che si sperimenta nei club, lo si porta nella vita di ogni giorno. La vita è ben più del club; ma il club aiuta a vivere, a divenire cittadini attivi, responsabili.
Attraverso questo processo - perché il club avvia un processo di crescita umana - le famiglie, i servitori insegnanti, i professionisti agiscono sulla società, sulla cultura generale esistente.
Il prof. Hudolin ha sempre proposto mete alte, molto alte: dalla pace nel cuore alla pace nella famiglia, nella società, nel mondo. Ha vissuto la guerra nell’ex Jugoslavia: ha visto la crisi dei club nella sua patria. “Senza pace, non c’è sviluppo umano” diceva. Aspirava che la terra diventasse “il pianeta azzurro”. Un sogno? Certo, ma anche un progetto che determina un cambiamento di mentalità nell’oggi, nel quotidiano.
Tutto ciò comporta un cambiamento anche nella cultura sanitaria. L’alcolista non è un paziente da curare malvolentieri, è una persona con cui condividere un percorso di crescita umana. Questa è una rivoluzione culturale. Il servitore insegnante non si occupa di un gruppo sociale emarginato: non fa opera di carità “che persona di buon cuore!”. Fa opera di giustizia, di giustizia sociale, fa politica nel senso più alto del termine.
Il club chiama ogni persona a cambiare prospettiva. Non si tratta di recuperare una persona: il club non è un’officina dove si ripara una macchina. Il club è motore di un cambiamento sociale, antropologico. Non è solo la persona, la famiglia con problemi alcol-correlati a cambiare mentalità: anche tu che leggi, che ascolti, che li vedi sei invitato a cambiare stile di vita, a cambiare lo sguardo nei loro confronti, a coinvolgerti nel costruire una società dove non ci sia più bisogno di intontirsi con le droghe. Non sei innocente, sei corresponsabile.
Questo vale per tutti, questo vale anche per la comunità ecclesiale. Dare una sede per i club: bene. Ma non è sufficiente. Parrocchia che lo accogli: quanto sei partecipe del lavoro che vi viene fatto? Ringraziare perché ci sono: bene. Ma c’è la voglia di accogliere il loro messaggio di spiritualità antropologica e di ecologia sociale?
don Remo Ceol