Quando iniziarono ad uccidere Bruno

Celebrare questa ricorrenza è doveroso innanzitutto tutto per onorare la memoria di quanti di quelle leggi furono vittime: il trascorrere del tempo non può essere considerata giustificazione per cercare di marginalizzarne il ricordo e la portata, relegando quegli avvenimenti ad un passato lontano. C’è però un rischio, molto concreto, che si corre e con cui si deve fare i conti se non si vuole che quegli avvenimenti abbiano a ripetersi: quello di considerare le Leggi razziali un fatto estemporaneo, attribuendone la responsabilità unicamente al monarca o al dittatore che allora guidavano il Paese quasi fossero state approvate solo per allinearsi alla politica dell’alleato nazista.Tanti commentatori in questi giorni sottolineano che la scelta del luogo per la dichiarazione del 18 settembre non fu banale: Trieste ospitava la terza comunità ebraica d’Italia. Una comunità che offriva ormai da secoli un contributo fondamentale alla vita culturale e sociale cittadina e che allora contava circa 7000 mila membri.Ci si dimentica, però, troppo spesso che Trieste era anche e soprattutto il riferimento del territorio dove il fascismo aveva combattuto negli anni Venti la sua prima battaglia razzista: quella contro i popoli slavi. Una battaglia condotta con l’italianizzazione dei cognomi e dei toponimi, l’obbligo all’uso della sola lingua italiana negli uffici pubblici e nelle chiese, la soppressione di associazioni culturali, ricreative ed economiche e l’annientamento del movimento cooperativistico sloveno: “I maestri slavi, i preti slavi, i circoli di cultura slavi eccetera, sono tali anacronismi e controsensi – scriveva il “Popolo di Trieste” il 27 giugno 1927 – in una regione annessa da ben nove anni e dove non esiste una classe intellettuale slava, da indurre a porre un freno immediato alla nostra longanimità e tolleranza”. Sappiamo che contro questo percorso di repressione le voci che si alzarono furono ben poche. I vescovi Fogar e Sedej pagarono in prima persona le loro denunce verso atti di cui vedevano le conseguenze immediate e, soprattutto profeticamente, quelle future.Fu la prima tappa di una politica razzista che vide Mussolini, nel 1936, dopo la guerra di Etiopia, scagliarsi contro le unioni miste e le procreazioni interraziali e che giunse nel 1937 a rendere punibile il madamato – colpevole di “inquinare la razza” – con pene detentive da 1 a 5 anni: “madama” era il termine spregiativo con cui gli italiani indicavano una donna africana che aveva una relazione stabile o coabitava con un loro connazionale. Aveva dichiarato il Duce su “La Stampa” in un’intervista nel settembre 1934 che per “l’Italia e per gli altri Paesi di razza bianca è una questione di vita o di morte. Si tratta di sapere se davanti al progredire in numero e in espansione delle razze gialle e nere, la civiltà dell’uomo bianco sia destinata a perire”.Ancora una volta le voci che condannarono quelle norme vennero sommerse dal clamore del silenzio: conseguenza, certamente, del clima di oppressione instaurato dal regime ma anche di come la maggioranza del Paese non trovasse nulla da ridire su posizioni che, nemmeno troppo in fondo, condivideva.Quel 18 settembre 1938 a Trieste fu, quindi, il punto di arrivo e di ripartenza di un cammino insanguinato da parole e gesti di odio e violenza contro chi, di volta in volta, parlava una lingua, aveva una cultura o una pelle o professava una fede  diverse. Sono cambiati i tempi ma rimane e si diffonde l’abitudine – per proprio interesse personale o elettorale – di cercare il consenso indicando nell’ “altro” un pericolo. A prescindere. E rimangono i pericolosi silenzi carichi di connivenza di chi – per quieto vivere – accetta passivamente tutto questo. Bruno Farber venne deportato verso Auschwitz dopo il rastrellamento della comunità ebraica di Gorizia avvenuto nella notte del 23 novembre 1943. Aveva tre mesi. Prima ancora che nascesse il suo destino era stato segnato dalle ovazioni di quella folla che il 18 settembre 1938 copriva di applausi il discorso di Mussolini in piazza Unità.