Quale messaggio ci porta il Covid-19?

Di Giornate mondiali sui svariati temi della vita umana ne abbiamo a decine lungo l’anno e alcune di grande importanza come quella sulla pace e di recente quella della memoria dell’olocausto. Fra queste ci mettiamo anche quella del malato che si celebra l’11 febbraio, anniversario delle apparizioni della Vergine Maria a Lourdes.  Chi infatti non ha mai conosciuto la malattia, o come esperienza personale o di propri parenti e amici, chi può ignorare o minimizzare il problema della salute con le sue paure, i condizionamenti e i drammi che esso comporta? Basti pensare a come tutto il modo di vivere dell’umanità intera sia cambiato da un anno a questa parte a  causa della pandemia di coronavirus. E Papa Francesco, nel suo messaggio per questa giornata, la 29^ della serie, si rivolge in primis a tutti quanti in tutto il mondo patiscono gli effetti di questa pandemia. Fiumi di parole – troppe! – si sono dette o scritte su questo flagello che non trova spiegazione esauriente né da chi lo attribuisca al caso, né alla volontà distruttiva di qualche potere occulto, né a una punizione divina. All’interrogativo “Perché ci è arrivata” questa calamità, che non trova risposta si può sostituire un “Quale messaggio ci porta” questa malattia così universale, subdola, misteriosa che esigerà certamente ancora molto tempo per essere neutralizzata. Io però non mi avventuro in una analisi e in suggerimenti che non potrebbero che essere generici e superficiali, ma mi limito a dare qualche esempio, alla luce della mia pur breve esperienza, di quale problematica si incontra fra le corsie di un ospedale. C’è una domanda non molto frequente ma che mi colpisce sempre ed è questa: perché continuare a vivere solo per soffrire? non ce la faccio più; con la variante per chi è credente “prega Dio che mi prenda con sé”.  Quando lo si può fare rispondo con una stretta di mano o una lieve carezza, qualche parola di incoraggiamento e di speranza cercando di evitare parole inutili o ipocrite, e certo prego il Signore che li ascolti. Una domanda più ricorrente è questa: perché proprio a me? Perché proprio ora? Perché non a me che sono vecchio mentre mio figlio ha tutta la vita davanti?

Non lo so, rispondo, ma non dico certo “Perché questa è la volontà di Dio”, perché la malattia in sé è un male e Dio non può volere il male. Noi crediamo invece che Lui ci stia vicino e che possa aiutarci e sostenerci in ogni circostanza, soprattutto grazie a chi ci vuol bene e si prende cura di noi. Talvolta poi  mi trovo di fronte a un vero e proprio accanimento della sorte contro qualcuno: “Sono ricoverata per un tumore per la terza volta – si confidava una giovane donna – e in breve tempo ho perso mia madre, mio marito e ho anche un figlio ammalato …”. Che rispondere anche in questi casi? Solitamente rimango in silenzio e in attesa, nel caso volesse continuare a parlare, o cerco di far emergere le cose belle che comunque ha vissuto nella sua vita. Quando una persona è ricoverata all’ospedale è sempre in una situazione di bisogno e di fragilità, accentuata in questo periodo dalla proibizione delle visite dei parenti a causa del rischio di contagio da coronavirus. Penso che molti ormai si siano resi conto che oltre alla terapia e all’assistenza il malato ha bisogno di affetto e di compagnia e che anche nell’emergenza contagio si possa salvaguardare un minimo di presenza fisica del familiare con il malato.   Quanto al mio parere su quello spot promosso da You tube che dice “noi cappellani con i malati, voi a casa” non sono d’accordo. Si deve lottare per un impegno politico ed economico maggiore destinato ad assicurare la tutela della salute ed evitare il contagio senza sacrificare gli affetti umani primari che non possono essere sostituiti ma solo affiancati dal pur volonteroso e coraggioso cappellano di turno (e poi non mi piace quel taglio clericale che fa dei sacerdoti i nuovi salvatori della patria). Nel suo messaggio il papa scriveva fra l’altro che nelle condizioni di bisogno del fratello e della sorella Gesù offre un modello di comportamento opposto all’ipocrisia di molti, proponendo di fermarsi, ascoltare, stabilire un rapporto diretto e personale con l’altro, sentire empatia e commozione per lui o per lei, lasciandoci coinvolgere dalla sua sofferenza. In questo compito fondamentale è mettere al centro la dignità del malato, tutelare la professionalità degli operatori sanitari e intrattenere un buon rapporto con le famiglie dei pazienti. Così ancora si esprimeva il Papa concludendo che il massimo e unico comandamento dell’amore lasciato da Gesù ai suoi discepoli trova la sua applicazione più profonda nella relazione con i malati e che una società è tanto più umana quanto più sa prendersi cura dei suoi membri fragili e sofferenti. Peccato che nessuno (o quasi) lo ascolti!