La Parola diventa un balbettio di un bambino

Quali sono state le prime parole del bambino Gesù? I  Vangeli non ce le riferiscono, ma probabilmente sono state: “emà” e “abbà”. Mamma e papà in aramaico. In realtà siamo certi del secondo termine, perché il Vangelo di Marco ce lo riferisce, posto proprio sulla bocca di Gesù. Non però di Gesù bambino – il Vangelo di Marco non ci parla dell’infanzia di Gesù -, ma di Gesù adulto e nel momento più drammatico della sua vita, quello dell’agonia, quando Lui, il Figlio di Dio divenuto uomo e uomo vero, prova paura e angoscia e cerca la vicinanza e il conforto degli amici: “Giunsero a un podere chiamato Getsemani ed egli disse ai suoi discepoli: “Sedetevi qui, mentre io prego”. Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”. Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”” (Mc 14,32-36). Noi avremmo invocato in quel momento: “mamma”. Gesù, invece, invoca il Padre: “abbà”, “papà”. In quell’ora tragica riprende quella parola che aveva imparato a pochi mesi, rivolgendosi a Giuseppe. Ma crescendo, progredendo nella consapevolezza di essere Figlio di Dio, quel termine – affettuoso, infantile – lo aveva utilizzato per rivolgersi al vero Padre, a Dio. E così succede nell’agonia, lì nell’orto degli ulivi.Tornando invece a Gesù bambino, si può aggiungere, per la legittima curiosità delle mamme e delle nonne, che probabilmente Maria chiamava il piccolo Gesù: Yeled (bimbo in ebraico) o Riba (bimbo in aramaico) o forse – ed è più facile – Tinoki (piccolo mio) o Chavivi (amore mio). In ogni caso Gesù, il Verbo di Dio, Colui che era, “in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” perché “in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,2-4) deve imparare a balbettare come tutti i bambini del mondo: ba, ba, abbà … ma, ma, emà. La Parola diventata il balbettio di un bimbo.Crescendo Gesù ha imparato le parole umane, le parole nella lingua della sua famiglia, del suo villaggio.Cominciando da quelle di ogni giorno, che identificano le  persone, gli oggetti di uso comune, gli animali, le attività quotidiane. Anche Gesù, come ogni bambino, sarà passato dall’età dei “perché” – mettendo a prova la pazienza di Maria e di Giuseppe… – e come ogni ragazzo ebreo avrà imparato a conoscere le parole della Scrittura, prima sulle ginocchia di Giuseppe e poi nella scuola presso la sinagoga di Nazaret. A dodici anni, stando al Vangelo di Luca, lo troviamo a Gerusalemme mentre ascolta e interroga i maestri nel tempio e pronuncia le prime parole registrate dai Vangeli, suscitando lo stupore e l’incomprensione di Maria e di Giuseppe: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49).Colui che è la Parola, si è quindi incarnato nelle parole umane, ha vissuto le stesse dinamiche di apprendimento di ogni essere umano, si è espresso con le nostre parole. C’è un’espressione cara ai padri della Chiesa che esprime questo mistero: il Verbo, la Parola, si è “rimpicciolita”. La ricordava il card. Martini che nella sua lettera pastorale Il lembo del mantello scriveva: “In Gesù, Dio sembra perdersi nel particolare, nascondersi volentieri nelle cose minutissime e semplicissime, prestare attenzione a un’azione di poco conto, come quella di dare un bicchiere d’acqua a un assetato. Gesù mostra attenzione per le cose per cui noi non abbiamo tempo, non abbiamo calma, non abbiamo attenzione. In proposito vorrei riprendere due espressioni assai dense e significative, care ai Padri della Chiesa. Esse sono: “La Parola si abbrevia, si fa come stretta; la Parola si fa piccola”. La Parola, il Logos di Dio, la manifestazione suprema del Padre, la manifestazione perfettissima di Dio si è rimpicciolita. Questo Logos, come abbiamo già ricordato citando il vangelo di Giovanni, è quello in cui tutto è stato creato: l’universo, gli uomini, le cose, le situazioni della storia; è il senso, la ragione di tutte le cose. Il Logos, dicono i Padri, si è fatto stretto, piccolo. La Parola universale, principio di intelligenza di tutto il reale, si è come rattrappita nel tempo e nello spazio, così da essere qui e ora, si fa particolare nel suono del dialetto di Canaan parlato da Gesù, si rende accessibile, si presta al rapporto interpersonale” (n. 36).La nostra Chiesa, come tante altre realtà diocesane in Italia e nel mondo, è impegnata da anni a riscoprire l’importanza della Parola di Dio, a dare valore alla Parola ascoltata, meditata, condivisa, attuata. È un lavoro impegnativo, quasi come quello di un bambino che deve imparare a parlare. Impegnativo perché per prendere sul serio il mistero dell’incarnazione – il fatto che il Vervo di Dio è diventato uomo non in astratto, ma in un preciso momento della storia, in un luogo particolare e dentro uno specifico contesto linguistico e culturale – occorre fare anzitutto la fatica di saper entrare nel linguaggio della Scrittura e dei Vangeli, nei modi di pensare e di esprimersi di 2000 e più anni fa. E poi occorre assimilare progressivamente la Parola di Dio per essere trasformati in quella Parola, per assumere i criteri di Gesù, i suoi pensieri, il suo punto di vista, i suoi  sentimenti, il suo amore. Una lavoro lungo che dura una vita, ma che porta frutto. Un lavoro che si declina in molti modi: dalla lettura personale, all’ascolto nella Messa, all’utilizzo di una frase del calendario, alla partecipazione ai Gruppi della Parola e in tante altre modalità.Certo, a volte, davanti al Vangelo, si ha l’impressione di poterlo solo balbettare e che anche il nostro attuarlo sia come il balbettio di un bimbo di pochi mesi. Ma la vita è fatta di balbettii. Anche la vita cristiana. Persino la preghiera del cristiano che si rivolge al Padre chiamandolo come il bimbo, ma anche come – lo abbiamo visto – l’uomo Gesù: “Abbà”. Non è facile. San Paolo dice che non riusciamo da soli neppure a dire “abbà” e che, del resto, non sappiamo nemmeno che cosa dobbiamo chiedere a Dio. Ma ci viene donato lo Spirito. Dice l’apostolo nella lettera ai Romani: “voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”” (Rm 8,15). Solo lo Spirito può realizzare il miracolo di incarnare in noi la Parola, così come per sua opera il Verbo si è fatto carne in Maria. Noi non siamo la Parola, abbiamo tutta la vita per diventare Parola. Non da soli, ma con la guida dello Spirito. E anche con l’aiuto di Maria. E se il dono da chiedere in questo Natale, contemplando il presepe, vedendo Maria con il bambino Gesù a cui a breve insegnerà le prime parole, fosse quello di imparare anche a noi a balbettare il Vangelo, a renderlo sempre più Parola delle nostre parole e delle nostre azioni? Un dono da chiedere per l’intercessione di Maria. E penso che non si offenderebbe se magari, come il bimbo Gesù, la chiamassimo anche noi in aramaico “emà”.