Capaci di cambiare

Papa Francesco da questo punto di vista sta proponendo un ottimo laboratorio che a volte, però, lascia confusi alcuni operatori pastorali. Siamo richiesti di essere più capaci di intercettare le domande delle persone e della cultura con cui abbiamo a che fare, più capaci di annunciare con semplicità il Cristo del Vangelo, in sintesi: diventare più missionari e non semplicemente continuare ad essere “curatori d’anime” già presenti e vicine al mondo ecclesiale. Anche, però, chi lasciasse cadere questa forte richiesta “dall’esterno” o “dall’alto”, sicuramente foriera di imprevedibili fatiche e di esiti non assicurati, si rende perfettamente conto che in diocesi almeno il 40% delle parrocchie non riesce a proporre ogni anno la Confermazione per mancanza di candidati sufficienti, che trovare catechisti è un’impresa assai ardua, che tante proposte giovanili non possono venir offerte per mancanza di operatori validi e così via. La necessità di un cambiamento allora urge da ogni parte, anche dall’interno delle nostre comunità parrocchiali, delle quali quasi metà conta meno di mille abitanti, spesso senza più tutte le risorse, presbitero residente in primis, necessarie a svolgere la propria missione.Anche tra i presbiteri si sta diffondendo una certa inquietudine, probabilmente perché ci si rende conto che i nodi veri stanno venendo al pettine e che delle prese di posizione pratiche non sono più eludibili.Due sono le domande che sorgono, però. La prima è se le nostre comunità sono davvero capaci di cambiare il proprio modo di fare. Cambiare non significa evidentemente abbandonare una pratica per sfinimento o adottarne un’altra per imposizione di qualcuno. Nel primo caso di tratta di constatare la morte di qualche cosa e nel secondo, invece, gli esiti probabilmente non saranno duraturi.Cambiare significa adottare un altro approccio alla realtà, un’altra organizzazione della comunità, con altri nuovi ministeri e alcune tradizionali azioni che non potranno più essere garantite. Ci sarà probabilmente da accettare dolorosamente la morte di qualche cosa. E nelle nostre comunità, come impostazione di fondo, tendiamo sia alla conservazione del preziosissimo “depositum” del Vangelo, come però anche delle scatole e dei cartoni nei quali ci è pervenuto. Ci sarà da far nascere qualche cosa di nuovo, e questo non sappiamo bene come si fa.La seconda domanda riguarda la forza che potrà avere il senso di appartenenza alla piccola comunità locale in processi di cambiamento importanti dal punto di vista simbolico, come ad esempio il cambio di sede del proprio parroco. Questo senso di appartenenza ha tenuto vive in particolare le piccole comunità per secoli. Se cambiamo, i fedeli riusciranno ancora ad identificarsi con la loro comunità? È una questione seria, perché abbiamo la sensazione che gran parte delle richieste rivolte alla comunità cristiana non nascano dalla conversione personale o dalla fede, ma piuttosto dal senso di appartenenza alla comunità locale.Ecco perché sarà importante l’Assemblea diocesana degli operatori pastorali dei prossimi giorni. Dovremo affrontare questioni davvero importanti e che toccano tutti: come poter essere ancora capaci di tenere vivo l’annuncio del Vangelo e tenere viva e vivace la vita delle nostre comunità nel prossimo futuro.Ma lo faremo con quella fiducia in Cristo Risorto, che probabilmente ci sta già aspettando con impazienza su qualcuna delle belle colline della nostra “Galilea delle genti”.

*Vicario episcopale per l’evangelizzazione ed i sacramenti