La Chiesa in India: testimonianza e martirio

Domenica 2 gennaio, dopo la Messa delle 9.30 nel Duomo di Cervignano, molte persone si sono fermate per ascoltare l’intervista condotta dal seminarista Manuel Millo a don Manoj Kispotta, sacerdote indiano che aveva prestato servizio nell’Unità Pastorale Bassa Friulana durante i mesi estivi ed è ritornato nel periodo natalizio da Roma, dove sta studiando alla Pontificia Università Gregoriana.Invitato a presentarsi, don Manoj ha detto di appartenere alla diocesi di Varanasi, città sulla riva del Gange, sacra agli indù, meta di milioni di pellegrini, conosciuta anche con il nome inglese di Benares, lontana 500 chilometri da casa sua.  Ha esercitato però la sua missione nel Chhattisgarrh, Stato federato dell’India centrorientale. Il contesto è in stragrande maggioranza induista, caratterizzato da una forte pratica religiosa verso i 330 milioni di dei, che rappresentano il principio supremo del Brahman. Sono presenti minoranze di altre religioni, soprattutto musulmani e buddisti, ma anche cristiani.La diocesi di Varanasi è un luogo importante per il buddismo perché a Sarnath (circa 10 chilometri da Varanasi) ebbe luogo la prima predicazione del Buddha. In India però il buddismo è stato riassorbito quasi totalmente dall’induismo: nel censimento del 2011 i buddisti erano appena lo 0,7%, mentre risultavano in aumento gli islamici (14,23%) e i cristiani (2,3%), cresciuti in 10 anni del 15,5%. La religione induista, pur continuando a rappresentare nel 2011 quasi l’80% della popolazione, si vede insidiata dalla crescita di altre religioni e i dati del censimento hanno aumentato il timore degli induisti di perdere ulteriormente posizioni, causando varie ondate di persecuzioni sia nei confronti dei cristiani che dei musulmani, come ci racconta don Manoj. Nel 2008, nello Stato dell’Orissa, a seguito dell’uccisione di un leader nazionalista indù rivendicata da un gruppo maoista, l’ira degli indù si è scatenata contro i cristiani: 500 bruciati vivi, 3906 case bruciate, molte chiese distrutte. Un’altra delle tante persecuzioni è avvenuta la notte di Natale, una decina di anni fa, quando fanatici indù hanno chiuso le porte della chiesa dove era in atto la celebrazione e hanno appiccato il fuoco. Poi, riaperte le porte, hanno massacrato i superstiti che uscivano. Anche in questo periodo di Natale arrivano dall’India molte notizie di violenze contro i cristiani e di attacchi alle chiese. Il cristianesimo in India ha una storia antica: sarebbe stato portato in Kerala (Stato a sud-ovest) dall’apostolo Tommaso nel 52 d. C. (ancor oggi alcuni gruppi sono definiti cristiani di san Tommaso e a Chennai, nella basilica di san Tommaso di rito latino, è segnalata la tomba dell’apostolo). Don Manoj conferma che, nonostante le tante prove, umiliazioni, persecuzioni, la Chiesa sta crescendo in India, dove oggi i cristiani sono il 2,5%. Parla poi del lavoro missionario all’interno della sua diocesi di Varanasi, dove, su una popolazione di circa 4 milioni di abitanti ci sono 23.000 cristiani e 137 sacerdoti, dei quali solo 10 o 15 sono locali, tutti gli altri e anche molte suore provengono da diverse province. Durante la settimana, a piedi o in bicicletta, vanno in vari villaggi a predicare la Parola di Dio per almeno un’ora e mezza nei luoghi dove la gente si riunisce per ascoltare, provenendo anche da 30 km di distanza. Alcuni arrivano il sabato sera e tornano a casa dopo la Messa della domenica. Molti dei partecipanti alla Santa Messa o alla preghiera, spesso indù o di altre religioni, non possono essere battezzati pur volendolo, perché in parecchi Stati indiani è in vigore una legge anti-conversione, nonostante la Costituzione indiana affermi la libertà di fede. Tutti questi fedeli non battezzati, definiti Christ Bhaktas, cioè devoti a Gesù, hanno in casa la Bibbia e la leggono ogni giorno. L’attuale governo federale, presieduto dal primo ministro Modi, è fortemente nazionalista e, aldilà delle dichiarazioni di facciata, sostiene la supremazia indù. Così, mentre in alcuni Stati si prevedono pene detentive fino a 10 anni se qualcuno si converte a religioni diverse dall’induismo, in particolare cristianesimo e islam, con la pretesa che si tratti di conversioni forzate, si consente a chiunque di tornare all’induismo da altre religioni, definendolo un mero caso di “ritorno a casa”. Nonostante tale situazione, don Manoj ci dice di aver battezzato quasi dieci famiglie prima di venire in Italia. In relazione ai tanti problemi di un contesto caratterizzato da molte (e purtroppo conflittuali) appartenenze religiose, da un sistema castale tuttora radicato anche se abrogato per legge, da culture diverse, il vescovo ha inviato Manoj a Roma per studiare missiologia. Anche a lui personalmente è successo di incontrare fanatici indù arrivati con la polizia mentre stava predicando. In quell’occasione non l’hanno attaccato, ma, ogni volta che si recava in un villaggio, non era sicuro di poter tornare a casa. Afferma però di non aver paura di nessuno, perché, al momento dell’ordinazione sacerdotale, si è ripetuto le parole di san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20); “Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). Con molta fede anche i suoi familiari lo incoraggiano dicendo: “Ti abbiamo offerto per Dio. Sia fatta la sua volontà”. Grazie, don Manoj. Un grande esempio per noi italiani e occidentali, che viviamo nella parte del mondo dove, secondo Andrea Riccardi, “La Chiesa brucia”, ma in modo simbolico, perché vive una situazione di vuoto, di abbandono, di crisi. Una testimonianza che dovrebbe spingerci tutti all’impegno cui ci chiama il cammino di conversione del Sinodo.