Lo studio del passato per illuminare il presente

 Lo scorso 13 marzo ha compiuto 80 anni il professor Giuseppe Cuscito. Un compleanno importante che il Centro di Antichità altoadriatiche ha voluto onorare con un volume intitolato “Legite, tenete, in corde habete”: si tratta di una miscellanea di testi in onore di Cuscito a cura di Fabrizio Bisconti, Giovannella Cresci Marrone, Fulvia Mainardis, Fabio Prenc. Il volume avrebbe dovuto essere presentato in occasione della Settimana Aquileiese originariamente programmata a metà maggio ma che, a causa dell’epidemia di Coronaviorus, è stata rinviata: gli autori hanno però voluto, significativamente, farlo comunque pervenire al festeggiato nei giorni scorsi in attesa di presentarlo ufficialmente.

Professore, la prima domanda, se mi permette, vuole essere legata all’attualità. L’umanità ha conosciuto numerose epidemie: da ognuna è uscita trasformata. Cosa La sta maggiormente colpendo del momento che stiamo vivendo e quale pensa sarà l’eredita che il Covid lascerà all’umanità?Sul piano psicologico e personale, è facile notare come questa epidemia ci costringa finalmente ad acquisire consapevolezza della nostra fragilità e del limite. Sul piano sociale, lascia piuttosto interdetti l’impreparazione dei governi a fronteggiare fenomeni epocali di questo tipo, mentre non viene meno l’interesse per gli armamenti e per ricerche tecnologiche di immane dispendio a spese della sanità e della scuola: insomma, dopo la crisi, dovremmo ripensare, come è stato detto, una politica e una finanza a misura d’uomo. I muri e i confini che la globalizzazione ha contribuito a far cadere ora vengono rialzati per proteggersi dal Covid-19. Forse dovrà essere riveduto e corretto anche lo stile di vita troppo disinvolto e consumista senza il dovuto rispetto per la natura, continuamente violentata.

Il Covid ha portato a riflettere sul significato della morte e sull’approccio che alla morte ha la nostra società. Per uno degli strani casi del destino il tema che avevate scelto per la Settimana di studi aquileiesi (in programma originariamente a metà di questo mese di maggio) era “Società dei vivi e comunità dei morti. Le tematiche funerarie nell’Italia settentrionale tra Protostoria e Medioevo”. C’è qualcosa di quel periodo che può essere d’attualità ed insegnamento nell’odierna situazione di pandemia?A differenza del passato, gli uomini del nostro tempo, inebriati dallo sviluppo delle ricerche scientifiche e dalle illusioni del benessere, hanno allontanato il pensiero della morte e perduto il senso ultimo della vita, ma per gli archeologi il mondo della morte si presenta ricco di sollecitazioni quando si consideri che le necropoli e i cimiteri con i corredi funerari e con le memorie incise sulle lapidi ci restituiscono un’immagine palpitante di vita e talora anche una speranza di sopravvivenza nel ricordo dei superstiti o in un aldilà pieno di luce: residui di banchetti funerari e di suppellettile domestica, segni di usi e tradizioni, dati biometrici, elogi del defunto, delicati sentimenti dei sopravvissuti, apparati decorativi svelano ai ricercatori frammenti di una storia altrimenti ignorata e spesso trasmettono il dogma cristiano della resurrezione. A dire il vero, non è stato l’odierno flagello a suggerirci il tema “Società dei vivi e comunità dei morti. Le tematiche funerarie nell’Italia settentrionale tra Protostoria e Medioevo” per la prossima Settimana Aquileiese (rinviata al prossimo settembre o al 2021) perché il progetto era stato pensato così già dall’ottobre scorso, quando ancora non si parlava di Covid-19. Si tratta dunque di una coincidenza casuale che darà l’opportunità ai partecipanti di confrontarsi col fenomeno ineluttabile della morte e del commiato attraverso l’esperienza vissuta nel corso dei secoli, quale si attesta attraverso le fonti e l’archeologia.

A chi la guarda con superficialità l’archeologia pare appartenere all’ieri. Eppure affascina sempre più il grande pubblico. Qual è il segreto di questa scienza?Proprio per questo è affascinante l’archeologia perché permette di recuperare fatti della vita quotidiana praticati dagli uomini del passato, su cui le fonti scritte dicono poco o nulla: com’è noto, lo studio del passato non è fine a se stesso, ma può illuminare il presente.

“Ricordatevi che il vostro dovere è di diffondere la cultura a tutti”: è una frase che mi pare molto significativa del prof. Mario Mirabella Roberti. Ma per diffondere la cultura c’è anche bisogno che essa possa essere valorizzata e non venire considerata una cenerentola nell’attenzione di Governi ed istituzioni…Mario Mirabella Roberti, Maestro mio e di molti altri, è stato un uomo lungimirante e, animato dal proposito di diffondere i valori di Aquileia  – la Pompei del Nord – a un pubblico più ampio rispetto a quello numericamente ristretto della comunità scientifica, aveva fondato il Centro di Antichità Altoadriatiche, che da allora ha promosso 50 Settimane di Studio, anche se da tempo la settimana si riduce a due o a tre giorni sia per il moltiplicarsi dei convegni sia per la scarsità dei fondi a disposizione.

I Suoi studi e le Sue ricerche hanno permesso fra gli anni ’70 dello scorso secolo ed oggi – di scrivere pagine importanti sulla storia della presenza delle prime comunità cristiane ad Aquileia e dell’Istria ed in particolari sul culto martiriale. Come può aiutare la testimonianza di quelle comunità l’impegno di evangelizzazione delle Chiese del Friuli Venezia Giulia all’inizio di questo terzo millennio dell’era cristiana?Sì è vero, sin dagli anni della mia laurea in Archeologia Cristiana col Mirabella Roberti (1964) e dagli scavi a San Canzian d’Isonzo da lui diretti, non ho smesso di studiare il culto martiriale e le origini cristiane di Aquileia, dell’Istria e dell’Italia settentrionale attraverso le fonti letterarie ed epigrafiche, oltre ai riscontri archeologici: che si tratti di pagine importanti lo dice lei molto gentilmente e per questo la ringrazio; dal mio punto di vista, posso affermare che, assieme a quelle di pochi altri, hanno contribuito a tenere aperto un fronte di ricerca meritevole di attenzione, ma qui piuttosto disatteso dopo l’opera indefessa del Brusin. In un ambiente accademico prevalentemente laico come quello di Trieste, a me premeva ripercorrere con metodologia scientifica le tappe più significative della testimonianza cristiana in queste terre anche in previsione della “nuova evangelizzazione” che ci attende come cristiani.

Mi scusi un’ultima domanda la domanda da profano: che cosa rimane da scoprire dell’Aquileia dei primi secoli del Cristanesimo. C’è qualche aspetto, in particolare, che dovrà essere oggetto degli studi nel prossimo futuro?Questo ce lo diranno le future ricerche da cui è possibile attendersi notizie sensazionali, come è stata la recente scoperta degli scritti del vescovo Fortunaziano vissuto intorno al quarto decennio del secolo IV. Resta tuttora aperto il problema del primo apostolato e dei vescovi aquileiesi anteriori a Teodoro (308?-319?), considerata la scarsa affidabilità dei cataloghi episcopali di tarda epoca e le rare informazioni per l’età precostantiniana, come pure le prime tracce epigrafiche, se pensiamo che la più antica lapide sicuramente datata è appena quella di un Antonius datata al 336 dal consolato di Nepoziano e Facondo ed esposta nel Museo Paleocristiano di Monastero: Aquileia non ha potuto giovarsi dei cimiteri ipogei come Roma, dove si sono conservate epigrafi di II-III secolo e dove la lettera di Paolo ai Romani, oltre alle tombe venerate di Pietro e di Paolo, attestano una presenza cristiana di età apostolica. Vorrei concludere con quanto un uomo di fede non meno che di scienza come mons. Guglielmo Biasutti si chiedeva durante la XII Settimana aquileiese del 1977: “se e quanto valga la pena di disquisire sul quando e sul chi abbia introdotto in Aquileia la Buona Novella, mentre parrebbe ben più pressante ed esistenziale riflettere sul perché oggi ne vacilli l’ascolto e cresca il rigetto”.