Gabria: un gioiello tutto da scoprire

L’abitato di Gabria (frazione del comune di Savogna d’Isonzo) guarda alle valli dell’Isonzo, del Vipacco e su quella che è stata l’importantissima arteria della Stradalta: la sua fondazione, quindi, si potrebbe ascrivere al primo medioevo quale importante punto d’osservazione viario e fluviale.Con gli insediamenti di Rubbia e San Michele, Gabria ha fatto parte fin dal Medioevo, e fino al 1864, della pieve di Mossa: per spiegare questo singolare sconfinamento territoriale (si pensi che Gabria e Mossa, distanti tra loro circa 5 km in linea d’aria, erano separate dall’Isonzo e dalle pievi di Farra e Lucinico), il Geat (1962) propone la tesi che il fiume, a suo tempo, sprofondasse nelle ghiaie del letto presso Savogna, lasciando perciò libero il territorio dalle acque. Il Mor (1969), invece, non perde di vista la storica presenza del ponte romano sulla Mainizza ed ipotizza l’esistenza di un distretto militare e giurisdizionale attorno al Pons Sontii che sorvegliava questo punto nevralgico sull’Isonzo: a ciò, successivamente, si doveva essere sostituita una circoscrizione ecclesiastica originariamente più ampia che mantenne nei secoli la sua discontinuità territoriale.La chiesa di Gabria è stata dedicata a san Nicolò vescovo, patrono di mercanti e commercianti, marinai, bambini, poveri, persone defraudate dei loro diritti, farmacisti, bottai. Il suo culto, giunto da Costantinopoli tra VII e IX secolo, lasciò lungo i principali tracciati di fondazione romana diverse testimonianze del suo passaggio.

La visita del 1570Le prime notizie sull’edificio religioso di Gabria si devono al conte Bartolomeo da Porcia che visitò la chiesa il 2 maggio 1570 lasciando una dettagliata relazione. La chiesa era consacrata e aveva due altari. Nel presbiterio (capella maiori), completamente affrescato, si trovava l’altare maggiore: presentava una pala e due statue lignee (san Nicola a destra e san Paolo apostolo a sinistra); il dossale era protetto dal paliotto, un pannello in cuoio dorato che si trovava comunemente nelle nostre chiese; il Santissimo Sacramento era conservato nel tabernacolo (armario) posto sopra l’altare e illuminato da una lampada sempre accesa. A san Nicola era dedicata anche una confraternita. Il secondo altare era consacrato a santo Stefano (patrono dei tagliapietra e dei muratori, presenze numerose a Gabria) e alla parete alcuni affreschi lo raffiguravano insieme a san Matteo (patrono di fabbri e macellai). Il fonte battesimale era di pietra e coperto da assi lignee. Il pavimento, il tetto, le pareti e la porta d’entrata erano in buone condizioni; il cimitero era ben protetto e circondava la chiesa. C’erano tre campane sulla torre campanaria (campanae tres super turri), fatto sorprendente se si pensa che, al tempo, villaggi piccoli come questo vantavano solitamente due campane poste su un campaniletto a vela: questa potrebbe essere la conferma che Gabria possedeva una torre di avvistamento usata anche come campanile. Il Porcia, inflessibile e severo nel giudizio, trovò Gabria in buono stato: tra le altre cose, ordinò di rivestire il tabernacolo internamente di seta; di porre una piramide lignea e dipinta con croce dorata sommitale a protezione del fonte battesimale; di rivestire in cuoio il dossale dell’altare di santo Stefano.L’analisi delle cose lasciava quindi spazio a quella della vita dei fedeli, rappresa in alcune rapide ed interessanti annotazioni, come quella del pievano di Mossa che spesso non poteva essere presente a Gabria, solitamente per colpa delle inondazioni dell’Isonzo. Egli ammetteva di non frequentare molto la località, di non sapere nemmeno quanti fedeli ci abitassero perché non parlava la lingua slava: il popolo, allora, si rivolgeva al pievano di Merna o ad un sacerdote di Gorizia. Sappiamo che anche la pieve di Mossa si manteneva col quartese del popolo (la quarta parte della decima): Gabria e San Michele fornivano 3 stai e mezzo circa (350 litri) di frumento, 3 pesenali e mezzo (quasi 100 litri) di siligine (grano duro, fior di farina) e circa 8 orne (776 litri) di vino. Il servizio religioso, infine, era costituito da una messa ogni due settimane, nel giorno della Conversione di San Paolo (25 gennaio) e nella festa patronale di san Matteo (24 febbraio).

Tra Seicento e NovecentoNel 1641 Gabria diventava curazia e l’arcivescovo Attems, nella sua visita del 1772, definiva la chiesa “nitida et decora”, ben provvista di suppellettili anche se con qualche riparazione da fare. A questo periodo risalgono il registro dei Battezzati (1624) e dei Morti (1785). Un documento interessante è la supplica del 1819, firmata dal decano Biagio Nalig, in cui si chiedeva formalmente la separazione da Mossa per creare una nuova parrocchia con Rubbia, San Michele e San Martino sotto l’egida di Savogna. Le motivazioni erano molte ed antiche: la gente non poteva più andare a Mossa perché aveva paura di lasciare la propria casa in mano ai ladri; Mossa era ad un’ora e mezza di distanza, passando per la Mainizza: se l’Isonzo era in piena si doveva deviare verso il ponte di Gorizia e le ore diventavano tre (10 km); a Mossa si facevano le funzioni in friulano e la gente non lo comprendeva; durante la festa del Corpus Domini il curato doveva recarsi a Mossa e quindi la comunità ne restava priva; il parroco di Mossa non era mai presente e percepiva il quartese “senza avere alcun disturbo”. Infine, il decano giustificava la richiesta di un parroco per una comunità che contava ben 800 anime (1200 con le frazioni), servita da una chiesa “decentemente ammobigliata” e sufficientemente capiente che proponeva di allungare di 3 klafter (circa 5 metri e mezzo). Nel 1864 Gabria venne staccata da Mossa e nel 1936 fu eretta parrocchia. Anche qui, come da altre parti, emergeva l’orgoglio di campanile: a metà del secolo scorso, il parroco si lamentava che la piccola comunità di San Michele esigeva la messa settimanale e solo a Natale, san Nicola, Pasqua e Corpus Domini si degnava di mandare una piccola rappresentanza a Gabria.

La chiesa attualeLe relazioni dei parroci del Novecento riportano che la chiesa di Gabria venne riedificata nel Settecento, ma non vi sono iscrizioni che lo attestino né lapidi che ricordino la consacrazione: nemmeno la data incisa sulla fronte dell’altare maggiore (1728) può essere presa come valido riferimento data la sua probabile provenienza dal santuario di Monte Santo. Nel 1877, data incisa alla base dello scalino dell’arco santo, il presbiterio fu presumibilmente ingrandito, così come fu scolpito il nuovo fonte battesimale, di chiare linee neoclassiche, le due pile dell’acqua santa all’ingresso e il portale con il pronao. Danneggiato durante la prima guerra mondiale, l’edificio fu restaurato a cura dell’Ufficio Ricostruzioni di Guerra che, nel 1925, rifece il pavimento in cemento a lastroni bianchi e rossi, rimaneggiò i muri e il tetto, mise in opera il paliotto e le colonnine di sostegno della mensa dell’altare maggiore, rivestì il soffitto a tavelle bianche e rosse, costruì il pulpito e la cantoria dell’organo concepiti con uno stile unitario a colori verde, bianco ed ocra; inoltre, edificò la canonica attigua alla chiesa. L’ultimo restauro, avvenuto tra il 2004 e il 2007, rinnovò l’interno della chiesa con il nuovo pavimento in pietra di Aurisina e nero di Gabria, i locali della sacrestia e della canonica, mentre l’esterno fu abbellito con il pavimento del pronao e i muretti esterni di contenimento.La tradizione orale riporta che i tre altari attuali furono acquistati all’asta in seguito alla demolizione del santuario di Monte Santo nel 1786. In effetti, è probabile che almeno l’altare maggiore, risalente al 1728 ed ingentilito da due passaggi laterali tipici del barocco goriziano, sia proprio uno degli altari laterali del santuario dedicato alla Santissima Trinità, come dimostra l’Occhio della Provvidenza sul fastigio che poca attinenza ha con il culto del santo titolare. Nel 1928 il bozzetto presentato per la sua pala fu assai criticato dalla Commissione per l’arte sacra di Gorizia (“no anatomia e prospettiva e proporzioni”), mentre un bozzetto del pittore Giacomo Caramel fu presentato in Curia l’anno successivo. La pala, occupata dalla gigantesca figura di san Nicola, fu poi commissionata al pittore espressionista Edoardo Del Neri (1890-1932), figlio del noto pittore Clemente, che la dipinse a Roma tra il 1930 e il 1931. Il dipinto è stato restaurato nel 2005.Gli altari frontali della navata, dato lo stile rocaille semplificato dei paliotti, si fanno risalire alla metà del XVIII secolo. A sinistra, l’altare dedicato alla Vergine Maria con statua della Madonna del Rosario acquistata nel 1923 da una bottega della val Gardena; a destra, è stato conservato l’antico culto del santo protomartire esaltato dalla pala del Martirio di Santo Stefano firmato nel 1932 dalla pittrice Emma Galli Gallovich (1893-1982). Il ciclo della Via Crucis si deve al pittore torinese Luigi Morgari (1857-1935) che lasciò altri cicli a San Lorenzo Isontino, a Sant’Antonio al monte di Medea e a San Floriano. Sono state restaurate di recente e le scritte in sloveno, incise sulla cornice, erano originariamente dipinte con la porporina.Nel 1929, per 16000 lire, fu comprato l’organo dalla ditta Janez Kacin (opus 23), organaro sloveno operante in Gorizia: la tastiera ha 58 tasti, una pedaliera di 28 tasti, 6 registri e trasmissione pneumatica. Vi era un organo precedente, così come risulta da un restauro del 1906. Si ricorda, inoltre, che a Gabria, nel 1763, fu battezzato Antonio Pelizon, noto caposcuola della liuteria goriziana.

Il campanileCome si è visto, un campanile a Gabria era già presente nel 1570 e quasi certamente si trattava di un’antica torre di osservazione. La costruzione attuale, solida e agile, si può collocare tra XVII e XVIII secolo ed è formata da conci in calcare bianco compatto e nero di Gabria grezzo legati con malta: presenta un’altezza di circa 30 metri, con 4 piani a scale lignee, accesso alla cella con scala libera, piano della cella in pietre connesse, copertura a quattro spioventi e coppi rimaneggiata nel 2007. Molto interessante e ben conservato è il portale gotico che si può dubitativamente assegnare ad una maestranza medievale locale, anche se nulla vieta di pensare che possa trattarsi di un manufatto neogotico ottocentesco.Nella cella sono presenti tre campane accordate in tonalità di la maggiore. La campana piccola risale al 1927 e presenta: maniglie sagomate; vasi di fiori, fasci littori con scritta (ANNO V), un angelo, un Sacro Cuore di Gesù, santo Stefano con scritta (SANCTE STEPHANE ORA PRO NOBIS) inseriti entro colonnette reggenti edicolette gotiche e decorazioni ogivali sovrastanti; tondi e scritta (REQUIEM AETERNAM DONA EIS DOMINE) e altra scritta mutila sul bordo inferiore (ME FREGIT FUROR HOSTIS ME HOSTIS AB AERE REVIXI ITALIAM CLARA VOCE DEUM CAN…). Nota: do#.La campana mezzana risale al 1927 e presenta: maniglie sagomate; elementi rococò con vari soggetti alternati (Madonna del Rosario, sant’Antonio di Padova, Crocifissione); scritte nella fascia inferiore (VOCE MEA AD DOMINUM CLAMAVI ET EXAUDIVIT ME / ANNO V [con fascio littorio in rilievo] / UT FRUCTUS TERRAE DARE, ET CONSERVARE DIGNERIS, TE ROGAMUS AUDI NOS / PREMIATA FONDERIA DE POLI IN VITTORIO VENETO 1927). Sul bordo inferiore scritta mutila identica a quella della campana piccola. Nota: si.La campana grande risale al 1948 e presenta: maniglie sagomate; fascia superiore decorata con elementi vegetali, elementi geometrici convessi e mezze sfere; fascia centrale con figure su piedistallo (san Giuseppe e san Rocco), festoni e scritte (EXAUDI DOMINE VOCEM POPULI TUI; FONDERIA GB DE POLI UDINE J948; GABRIA). Nel bordo inferiore altra scritta (ABLATUM TEMPORE BELLI A.D. MCMXL – MCMXLIV – RESTITUTUM PUBBLICO SUMPTU A.D. MCMXLVIII). Nota: la.