“Ci hanno spogliato di tutto”

Avevo appena ricordato nella Messa, che celebro ogni mese, secondo richiesta del figlio, Dora e suo marito Longino, ma nel giorno della memoria, ho sentito il bisogno di andare in cimitero, a Capriva, per una preghiera particolare e per rendere omaggio con un fiore e un lume a questa donna forte, cristiana convinta, che è passata attraverso quei campi di concentramento che hanno mietuto milioni di vittime innocenti.Dorotea Gabrijelcic, chiamata Dora, nacque a Vidrignano, nel Comune di San Martino di Quisca, sul Collio sloveno, il 17 gennaio del 1924, da una famiglia contadina, molto religiosa, numerosa e dedita al lavoro. Dirà: “Mi sono tormentata a lavorare con mio padre”. Erano in otto, in casa, con il nonno.  “Mia madre aveva molta fede”. Arrestata il 10 dicembre del 1944, al ritorno da un suo giro in Bisiacheria alla ricerca di cibo da barattare con grappa, venne fermata a Cormòns, cosicché il suo Brda, il suo Collio rischiò di non rivederlo mai più. Così raccontava in una intervista che le fu fatta e che, gentilmente, mi è stata inviata da chi mi ha accompagnato in cimitero: “Ero con una mia amica. Non so perché non siamo andate per Medana, come ogni volta”. Nell’interrogatorio…”Volevano sapere dove erano nascosti i partigiani, se ne conoscevamo qualcuno. Ma noi non abbiamo fatto la spia. Sapevo di non dover fare la spia.” E poi, il triste viaggio verso il campo di concentramento di Ravensbrück, gennaio del 1945. Sono ancora sue parole: “Ci hanno spogliato di tutto. Avevo portato una valigia” I ricordi di Dora continuano e si soffermano sul freddo, la pioggia, la neve, le baracche con le finestre con i vetri rotti. “Entrata nella baracca, osservo delle donne coperte, sdraiate per terra. Chiedo perché stessero a dormire là. Mi rispondono che quelle donne non dormivano, ma erano già morte”.Poi Dora viene trasferita al lager di Dachau.” Là mi hanno messa a lavorare in una fabbrica dove facevano vetri”. Siamo ormai nella primavera del 1945. Le truppe americane avanzavano e i prigionieri venivano spostati dai nazisti da un lager all’altro.  Ed è durante uno di questi spostamenti che Dora riesce a fuggire. “Eravamo in fila. Era buio. Il tedesco che era con noi era andato avanti. A quel punto mi sono detta “o adesso o mai più”. Una mia compagna ed io siamo uscite dalla fila. Sul lato della strada c’era un carro rovesciato e distrutto e lì siamo rimaste nascoste, fino quando non ha cominciato a far giorno. Solo allora mi sono accorta che stavo sull’orlo di una buca, profonda una ventina di metri. Ho rischiato: o la vita o la morte, perché tutti quelli che sono andati avanti li hanno uccisi su di un argine”. Arriva finalmente il giorno del rimpatrio “Ci hanno accompagnate al treno, un soldato americano e uno russo e siamo rientrate a Gorizia.Era il settembre del 1945. Abbiamo dormito, finalmente! Poi con la camionetta, me e una certa Bruna Clement di Cormons, ancora in vita, ma cieca purtroppo, ci hanno portato a casa. A San Martino di Quisca c’erano un’amica di mia madre e mia sorella che mi aspettavano. Pesavo 29 chili, solo pelle e ossa”.Pian piano, con l’aiuto del medico di famiglia che le Somministra dosi massicce di ricostituenti, Dora si riprende. Con la ritrovata salute, ricomincia A lavorare presso il Cotonificio di Piedimonte e, con il lavoro in fabbrica, riprende anche la sua normale vita di (una) ragazza di vent’anni. “Eravamo in tanti, del Collio, che andavamo a lavorare attraverso il Preval. Si andava insieme. Di sabato andavo a ballare a Mossa con un’amica”. In una di quelle serate incontra Gino, il futuro marito. “Non sapevo ballare bene, perché mia madre non mi lasciava, e gli pestavo i piedi. Una sera ci sorprende un violento acquazzone, verso Lucinico. C’era una tettoia e lì ci siamo incontrati’.  Ha inizio così un’altra storia e un’altra vita.Davanti a quella tomba, addossata alla chiesetta del cimitero, ho chiesto a Dora, che sicuramente è in Paradiso, perché anche lei, come un innumerevole popolo, ha camminato sui tornanti del Calvario, (lei) con la forza della fede, di intercedere presso Dio, perché nel mondo finisca la barbarie, declinata in varie forme, che oscura l’”umanità” di quel mondo nuovo che tutti siamo chiamati a costruire.