Uno sguardo alla realtà carceraria del Messico

Padre Mario Picech, cormonese appartenente alla Provincia Italiana dell’Ordine dei Gesuiti, da anni opera in Messico, all’interno del Cárcel federal de maxima seguridad “Islas Marias” (Carcere federale di massima sicurezza, già colonia penale), prigione che detiene condannati per reati classificati come “Delitos contra la salud”, crimini contro la salute, e che riguardano la produzione di droghe, il trasporto delle stesse – molto spesso tramite camion – e il trasporto di armi, con tutto ciò che ne consegue.Per un breve periodo di “pausa” padre Mario si trovava in Diocesi, l’abbiamo incontrato per fare con lui il punto della situazione sulle condizioni di vita nel carcere, una realtà del tutto particolare proprio perché – trovandosi su un’isola – ricrea un microcosmo dove i detenuti si trovano a scontare la pena; tra le attività del penitenziario, quelle proposte dai Gesuiti – 4 presenti sull’isola – sono un’occasione per vivere, anche se per poco, attimi di normale quotidianità in fraternità.

Mario, raccontaci di come sei arrivato ad Islas Marias, di cosa ti sei occupato e di cosa ti occupi ora.Sto per iniziare il mio sesto anno come cappellano del carcere, da quando c’è stato il cambiamento da Colonia penale a Carcere federale, ma il mio primo arrivo fu nel 2008, una realtà quindi che conosco da 9 anni. Per il primo periodo trascorrevo lì solo alcuni mesi all’anno, poi l’impegno è diventato più lungo e di maggiore responsabilità; cerco di non prolungare mai troppo la mia permanenza in Italia proprio per non perdere il contatto con ciò che si sta sviluppando e verificando nel carcere. Ogni anno vedo una situazione diversa: il primo anno è stata quella dell’impatto con la realtà penitenziaria e lo “scontrarmi” con una quantità infinita di pensieri sul perché fossi lì e cosa potessi fare in quell’esperienza, essendo un “elemento estraneo” rispetto alla realtà carceraria, e su come affrontare le difficoltà di comunicazione. Guardando a ritroso nel tempo, il primo anno è stato forse quello più significativo per me, quello in cui ho compreso di più il senso della vita in carcere, pur non incontrando i detenuti (li incontravo solo una volta alla settimana e per un periodo limitato alla Santa Messa) e senza poter comunicare con loro. Quel primo anno mi è servito per comprendere il senso di impotenza e del vivere completamente dipendenti da altre realtà che limitano nelle libertà comuni che abbiamo. Anche incontrandoli per poco tempo, quella Messa che si celebrava insieme era veramente una celebrazione dell’amicizia. Così è proseguito il mio impegno finché, con il passaggio da Colonia penale a Carcere federale, con maggiori restrizioni, come Gesuiti ci siamo domandati come portare avanti la nostra attività, avevamo difficoltà a creare una pastorale e avevamo addirittura pensato di terminare la nostra esperienza. Ma non potevamo lasciare le allora 8.000 persone detenute senza un sacerdote: anche se non potevamo incontrarli, sapevano che c’eravamo e questo contava più di ogni cosa.Dopo il primo anno come Carcere federale, ad Islas Marias c’è stato un motín, una rivolta, e questo ha fatto cambiare molte cose.

Che tipo di cambiamenti? Com’è cambiato il vostro modo di operare sull’isola?Innanzitutto è cambiata la direzione, passata da una persona che veniva dal mondo dell’esercito ad un nuovo responsabile – che tra l’altro ha la responsabilità di tutte le Carceri federali messicane -, che ha da subito cercato di dare la possibilità ai detenuti di esprimersi, soprattutto con l’arte, il teatro, la musica, la pittura, coinvolgendo anche persone dall’esterno per creare corsi di formazione su attività artigianali, in modo tale che i detenuti possano dare concretezza alla loro espressività e creatività. Le opere artigianali create, tramite il nostro aiuto, sono vendute esternamente e il ricavato è una forma di sostegno alle famiglie dei carcerati; abbiamo reinventato il nostro modo di stare loro vicini.Tra le tante cose create da quella direzione, anche la Settimana Culturale di Islas Marias, giunta alla 5^ edizione, con la presentazione delle attività artistiche di ogni accampamento – ce ne sono cinque sull’isola -, un interscambio arricchito anche da eventi con ospiti dall’esterno e dall’estero. Ci sono poi la Via Crucis, la Settimana Santa, la festa per la Madonna di Guadalupe… Assieme alla direzione si concordano le attività da svolgere, in un’ottima collaborazione. Lo scopo è servire ai detenuti ma allo stesso tempo essere utili anche per l’organizzazione carceraria; c’è un clima di fiducia, collaboriamo con dei report scritti a seguito dei ritiri e delle varie attività.Da circa un anno il carcere è guidato da una direttrice, la quale sta continuando sulla strada avviata dal suo predecessore, implementando alcuni aspetti come la Casa di Esercizi spirituali, “Casa Loyola”, dove ogni 3 settimane facciamo dei corsi di circa 15 giorni, realizzando un piccolo cammino con diverse modalità. Si vive insieme in una piccola casa, a volte ospitiamo qualche persona o qualche gruppo da fuori che porta la loro storia. Una delle cose “simpatiche” che siamo riusciti a realizzare in questi anni è la possibilità di portare i detenuti a fare il bagno nel mare: per noi è un momento un po’ difficile, perché abbiamo paura di perderne qualcuno, ma per loro significa molto; oppure facciamo dei momenti di raccoglimento attorno al falò, delle attività di gioco… il tutto finalizzato a creare un percorso di discernimento.

Come si attestano al momento i “numeri” del carcere e com’è la partecipazione alle vostre proposte?Da 8.000 detenuti ora ce ne sono circa 1.000: dopo la rivolta sono stati subito ridotti a 4.000, in attesa però di ritornare pian piano a una media di 5.000 detenuti. Si stanno anche costruendo delle strutture per realizzare una realtà più adatta e funzionale a questi numeri di persone. Certo è che non si ritornerà alle 8.000 o più persone di tempo fa, proprio per evitare situazioni di malessere e rivolta. Il motín ha cambiato la fisionomia del carcere, l’ha trasformato.Alle nostre attività partecipano sempre una ventina di detenuti, c’è chi viene per fare un po’ di “vacanza”, per distrarsi, e chi invece viene con uno spirito di preghiera. Tutti comunque ritornano con un senso di fraternità e di partecipazione più forte, ognuno accoglie qualcosa dall’altro; c’è un forte senso di comunione e qualcuno riesce a esplicitare l’interiore, a condividerlo con gli altri, a riconoscere la presenza di Dio nella sua vita in un contesto di limitazione “forte”.

Cosa ti ha insegnato il carcere in questi anni?Mi ha insegnato a leggere di più e a comprendere di più la mia vita come sacerdote, il fatto di fare un piccolo sacrificio, una piccola offerta dovuta all’obbedienza ma che ritorna qualcosa di grande. Ora come ora credo che la vera obbedienza la vivrò quando mi diranno di ritornare stabilmente in Italia, lì sì sarà dura! Quello che sto vivendo sento che è un dono, un regalo, un’esperienza di Dio che si accoglie e a propria volta si dona, perché se ce ne si appropria, la si distrugge.Vorrei ringraziare l’accompagnamento delle Suore della Provvidenza, che sempre pregano per me e per noi Gesuiti di Islas Marias, sento molto forte il senso della comunità e la loro vicinanza nella preghiera, ne vivo la forza. Un grande ringraziamento anche al Gruppo missionario di Cormòns che sempre cerca di appoggiarmi e con le loro offerte poi io aiuto i detenuti nel sostegno alle loro famiglie e nell’incontrare mogli e figli: la vicinanza dei propri cari, l’amore della propria famiglia – nonostante le difficoltà e la lontananza – il sapere che ti aspettano, ti amano e ti stanno vicino, realmente trasforma le persone.