Uniti dalla fede comune nata sulle rive del Mediterraneo

L’arcivescovo Carlo – nella sua veste di presidente della Caritas italiana – ha avuto modo di partecipare la scorsa settimana a Bari all’incontro “Mediterraneo frontiera di pace” promosso dalla Conferenza episcopale italiana che ha visto giungere nella città pugliese 58 vescovi delegati provenienti da 20 Paesi diversi. Lo abbiamo incontrato al rientro chiedendogli di condividere con i nostri lettori quanto vissuto.

Monsignore, Lei è appena rientrato dall’incontro di Bari. Cosa ha portato a casa?Innanzitutto una grande riconoscenza al Signore ma anche verso chi ha pensato ed organizzato questo incontro: si è trattato di un’occasione davvero splendida di contatto, conoscenza e comunione ecclesiale fra diverse realtà di Chiesa e fra persone che credono in Dio. È stata la prima volta che si sono trovate insieme realtà ecclesiali legate al Mediterraneo: abbiamo scoperto di avere molto in comune e che fra noi esiste una grande vicinanza anche se alle volte ci pare piuttosto vi sia una grande distanza fra la sponda settentrionale e quella meridionale, fra quella orientale e quella occidentale… Ad unirci è prima di tutto una fede comune, nata proprio nel bacino del Mediterraneo!

Lei richiamava poca fa il concetto di “vicinanza”. Nei suoi interventi di domenica scorsa nel capoluogo pugliese, papa Francesco ha fatto spesso ricorso a termini come “paura”, “indifferenza”, “rifiuto”, “muro”…: parole che segnano la quotidianità della società di oggi ed in modo particolare proprio i Paesi bagnati dal “Mare nostrum”. Cosa possono fare le Chiese, nella quotidianità, per aiutare le popolazioni mediterranee a superare questa cultura di scontro e separazione?Il punto di partenza credo sia proprio favorire la conoscenza fra le Chiese: incontrandoci ci siamo accorti che non ci conosciamo! E questa è una realtà che riguarda non solo i vescovi ma tutti i credenti. Una “non-conoscenza” di persone che vivono realtà molto più vicine e simili di quanto sembri ad una lettura superficiale: a legarle è una storia non sempre di pace ma, anzi, spesso segnata da guerre e torti fra le Chiese stesse in situazioni che abbiamo voluto ricordare con una richiesta di perdono reciproca.Non va poi dimenticato che nei Paesi del Mediterraneo vivono uomini e donne delle tre grandi religioni monoteiste ed anche questo è un aspetto molto importante. Molti, nel corso dell’incontro, hanno voluto richiamare l’importanza del “Documento sulla fratellanza umana per la pace e la convivenza comune” sottoscritto lo scorso anno da papa Francesco e  dal Grande Imam di al-Azhar, Ahmad al Tayyeb ad Abu Dhabi. È un’importante apertura fra mondo cattolico e islam sunnita che porterà ancora maggiori frutti se sarà seguito da gesti simili con le altre realtà islamiche (penso ad esempio agli sciiti) favorendo una maggiore conoscenza reciproca ed incrementando il dialogo di pace perché il nome di Dio venga usato per costruire ponti e non muri.

Papa Francesco nel suo intervento ha ribadito che “la guerra è una follia”, parole che avevamo sentito pronunciare dalla sua voce anche durante la storica visita al sacrario di Redipuglia. Il professor Rocucci nel suo intervento durante l’incontro di Bari denunciava il pericolo della riabilitazione della guerra come strumento legittimo per risolvere i problemi della nostra società. Perché siamo giunti a questo punto? Sembra quasi che ci siamo dimenticati degli orrori vissuti alla metà del secolo scorso…Nel nostro ragionare a Bari, vescovi e patriarchi del vicino e del medio Oriente, abbiamo evidenziato che la guerra non è mai una soluzione. L’esempio della Siria mi pare lampante: lì c’è un conflitto che ormai dura da anni tanto che non si capisce nemmeno più quando e perché sia iniziato! Tutti hanno, però, sottolineato come dietro ad ogni guerra vi siano prima di tutto interessi di carattere economico legati, magari, alla produzione, alla vendita ed al commercio delle armi. Mi ha colpito un intervento che evidenziava l’aspetto delle “emozioni dei popoli”: si fa la guerra quasi per una questione di prestigio nazionale, per ripristinare un ruolo o un potere che si è persi con la prima piuttosto che con la seconda guerra mondiale, cercando di tornare ad essere “potenza” a scapito degli Stati e delle popolazioni più deboli.

Come fare perché l’incontro di Bari non rimanga solo un “episodio” ma rappresenti la prima tappa di un cammino condiviso?Tutti noi presenti a Bari abbiamo chiesto di continuare questo cammino di Chiese che sono sul Mediterraneo. È stata ripresa una bella immagine proposta da Giorgio La Pira e che paragona il Mediterraneo al lago di Tiberiade: siamo sulle rive del lago ed al centro c’è il Signore. Non a caso è stata proposta l’icona evangelica della tempesta sedata: noi siamo nella tempesta ma con noi c’è il Signore e Lui ci può salvare.È importante quindi trovarci ma anche favorire gli incontri e la conoscenza delle nostre comunità.Le Chiese del Medio Oriente e del nord Africa ci hanno chiesto di andarle a visitare, vincendo magari qualche comprensibile paura per le situazioni di guerra e conflitto in cui si trovano. La nostra presenza può già trasformarsi in un segno importante per loro anche nei confronti delle realtà in cui sono inserite: dimostrare che queste Chiese – piccole forse in quanto a numeri di fedeli ma grandi in quanto a storia e testimonianza di fede – non sono abbandonate a se stesse ma hanno qualcuno che le pensa e che va ad incontrarle diventa una garanzia di sicurezza fondamentale all’interno dei propri Paesi. Questa conoscenza diventa importante, poi, anche per comprendere ed accogliere chi, fuggendo dalle situazioni di pericolo di quei Paesi, giunge nelle nostre terre come migrante in cerca di rifugio.