Una vita da sempre dedicata al prossimo

In questa quaresima appena conclusa, nell’Unità Pastorale cervignanese, padre Claudio Bortolossi, Claudia Pontel e Ivana Cossar, hanno raccontato nelle comunità le proprie esperienze, il loro vivere la quotidianità in terre lontane. Per Padre Claudio non ci sarà più il ritorno nella sua Colombia perché, dopo 23 anni di duro lavoro in quella regione dell’America latina, è in attesa di ricevere la nuova destinazione pastorale, probabilmente in Friuli Venezia Giulia.Missionario Saveriano (monsignor Guido Maria Conforti Vescovo di Parma fondò, nel 1898, la Pia Società di San Francesco Saverio per le Missioni Estere – Saveriani), a Padre Claudio, quando frequentava la quinta elementare, arrivò una lettera da parte di un missionario che gli prospettava di entrare nell’Ordine: accettò e iniziò la prima media nell’istituto retto proprio dai Padri saveriani.Era appena stato ordinato sacerdote quando sua madre gli confidò che, nel momento in cui aveva saputo di essere rimasta incinta di lui, si era rivolta al Signore dicendo “Questo è per voi”. Un predestinato, una scelta consapevole ed indipendente, che però vedeva sin dal concepimento la strada in qualche modo già segnata.Dopo l’iter formativo era pronto per partire missionario in Indonesia ma gravi motivi familiari lo indussero a rimanere in Italia dove si dedicò anima e corpo all’insegnamento e ad accudire i propri cari. Finalmente, con una messa celebrata ad Aquileia, dopo avere salutato gli amici e parenti, potè partire – a 51 anni – alla volta della Colombia, dove ha trascorso 23 anni, soprattutto nella città di Buenaventura.

Com’è stato il suo approdo in Colombia, come ha vissuto i primi momenti dopo il suo arrivo?Innanzitutto dovetti imparare la lingua: per sei mesi a Bogotà affinai lo spagnolo e quindi venni destinato a Buenaventura (il porto principale della Colombia con i suoi 300.000 abitanti) nella parrocchia di Cristo Redentore.La prima impressione fu quella di vivere in un altro mondo, dal punto di vista della povertà.

In quei luoghi c’è una disoccupazione che arriva al 70% con una criminalità e violenza che raggiungono gli indici più alti di tutta la Colombia. Come si può portare in questa realtà la parola di Cristo?La violenza è una mentalità comune, che non risparmia nessuno. Mi sono proposto di trasformare la parrocchia tradizionale in parrocchia missionaria, cioè evangelizzatrice, dove i laici sono coinvolti in pieno con senso di comunione e corresponsabilità.Il passaggio è avvenuto attraverso un metodo preciso, detto “Sine” (Sistema integrale di nuova evangelizzazione), che applica a livello parrocchiale l’ecclesiologia e la spiritualità del Concilio Vaticano II.Un esempio su tutti: vivere la fede in piccole comunità (massimo 15 persone) in modo da comunicare più facilmente e, specialmente le donne, far riprendere una loro dignità, non essere trattate come oggetti a piacimento dell’uomo, essere considerate persone a tutti gli effetti. Anche se non sempre queste nuove condizioni erano accettate dai loro mariti.

Il vostro lavoro consisteva anche sull’educazione, l’insegnamento ai ragazzi. Come riuscivate a conciliare questo importante impegno?Le adozioni a distanza sono una fonte importante di sostegno, con un’adozione riuscivamo a pagare le insegnanti e dare un’istruzione adeguata a 5 o 6 ragazzi; alla fine rimaneva ancora qualche piccolo introito, che noi usavamo per riparare la scuola. Nel nostro istituto accettavamo solo i ragazzi poveri e bisognosi, senza di noi non avrebbero avuto nessun tipo di istruzione.

Covid-19, un vero e proprio problema mondiale, come lo avete affrontato?Ci siamo adeguati alle normative internazionali, mascherine e distanziamento, in chiesa ci siamo comportati come qui in Italia.Il Covid è un problema che tutti quanti affrontano con estrema serietà ma, come dappertutto, c’è sempre qualcuno che non segue le regole.

Il Papa, nei saluti dopo l’Angelus di alcune domeniche fa, ha ringraziato la Colombia per l’implementazione di uno Statuto che favorisce l’accoglienza, la protezione e l’integrazione delle persone costrette a lasciare il vicino Venezuela. Voi che siete in prima linea, come avete affrontato il problema?Abbiamo fornito accoglienza a questi sfollati dal Venezuela, Paese ricco ma che non sa distribuire la sua ricchezza; li abbiamo accolti come si può accogliere un fratello che è in difficoltà, abbiamo cercato di condivide con loro quello che avevamo con la speranza che al più presto questa fuga dal loro Paese natale si concluda.

Un’ultima domanda, forse la più difficile fare: dopo 23 anni non ritornerà più in Colombia, il suo compito è terminato. Come si sente?L’obbedienza innanzi tutto. I miei superiori mi hanno destinato ad un altro compito e lo accetto. Se mi dicessero di ritornare in Colombia, lo farei più che volentieri, anche a nuoto, ma il mio compito lì è concluso. Nelle ultime messe che ho celebrato, ho salutato tutti i fedeli e posso dire di aver visto molti occhi gonfi di lacrime; penso di avere assolto al mio compito nel modo più consono, dando tutto me stesso per quelle popolazioni. Ora avrò una nuova missione, sono pronto e l’affronterò sempre portando la parola di Gesù Cristo. Il mio compito continua ancora.